Nei social ma non dei social

Nell’ultimo anno di laurea magistrale in scienze religiose ho avuto modo di seguire un interessante corso di “Teoria ed etica della comunicazione” che, oltre ad avermi permesso di approfondire il magistero della Chiesa in termini di comunicazioni sociali, mi ha aiutato a fare luce su una serie di punti su cui da tempo Giulia ed io ragionavamo, un po’ osservando chi, come noi, fa evangelizzazione sui social, un po’ per essercene scontrati personalmente.

Noi siamo “sbarcati” sui social nel 2019 dopo oltre sei anni di apostolato tra persone in carne ed ossa e questa presenza in rete è senz’altro stata una provvidenziale sorpresa, specie in un periodo come quello della pandemia, permettendoci di ampliare i contatti e far conoscere la teologia del corpo.

Abbiamo però subito notato come l’ambiente dei social (ci riferiamo qui a facebook e Instagram) non è un ambiente neutro, ma una realtà con le sue leggi, le sue logiche, le sue tentazioni… Un ambiente nel quale non è indifferente muoversi in un modo o in un altro, dove è estremamente facile fermarsi ad un livello superficiale delle relazioni e lasciarsi inebriare dal culto della propria immagine.

È curioso come anche le indicazioni dei papi in materia di internet e social network siano progressivamente evolute da grandi entusiasmi iniziali in cui si invitavano i giovani di buona volontà a portare la loro testimonianza e i valori cristiani in questo nuovo ambiente comunicativo, ad una sostanziale prudenza attraverso cui si sottolinea la necessità di una vita fatta di relazioni concrete e si mette in guardia dal narcisismo.

Ecco allora che tra una riflessione e l’altra abbiamo buttato giù 5 punti che, se da un lato non hanno alcuna pretesa di esaurire la questione, dall’altro crediamo possano essere un utile vademecum per chi desidera fare evangelizzazione sui social (noi in primis).

1 – La sottile differenza tra testimonianza e “smutandamento”

Va da sé che se siamo sui social dobbiamo metterci la faccia, le persone hanno diritto di sapere chi gestisce la pagina e qual è l’intento che si prefigge, ovvero è necessario farsi conoscere, ma siamo convinti che su questo fronte occorra equilibrio.

Dopo oltre un decennio di Reality shows e di Amici, corriamo tutti il rischio di “defilippizzarci”, ovvero di mettere in piazza con preoccupante leggerezza i nostri vissuti.

È curioso che nessun cattolico impegnato sui social si sognerebbe mai di postare una foto in cui è svestito, eppure, non di rado, capita di imbattersi in chi condivide senza alcuno scrupolo cose estremamente intime e private della propria vita.

Nello stare sui social crediamo sia fondamentale tenere saldo il baluardo del pudore che custodisce la nostra intimità esteriore ed interiore da sguardi indiscreti. La nostra intimità, i nostri vissuti, sono qualcosa di incredibilmente prezioso, non sono fatti per essere mercificati o esibiti di fronte a chiunque, ma per essere donati a coloro che sono in grado di custodirne il dono nei momenti e negli spazi più appropriati. E spesso solo il faccia a faccia in carne e ossa può essere questo spazio, perché rende tutto molto più vivido, personale e ricco nell’interscambio reciproco.

Dare testimonianza non è “smutandarsi” davanti a tutti rivelando le proprie cose private per colpire al cuore i propri followers; raccontare di sé richiede sapienza, prudenza e discernimento per capire cosa e fino a che punto vale veramente la pena condividere in base al contesto e alle persone che si hanno di fronte, avendo sempre cura di custodire e non svendere la preziosità che siamo.

2 – Ho qualcosa da dire o voglio dire qualcosa?

Instagram è un social che gioca molto sull’interazione con i followers e allora ben venga interagire e chiedere alle persone di cosa vogliono parlare, ma nel farlo è bene anche essere consapevoli che non possiamo parlare di tutto né rispondere a tutto, non siamo tuttologi.

Un rischio concreto, quando si entra nei meccanismi dei social optando per una pubblicazione ricorsiva di contenuti, è quello di farsi prendere dalla frenesia di produrre continuamente materiale pur di riempire il proprio palinsesto, finendo magari col ripetersi o con l’improvvisarsi su terreni sui quali non si è formati, rischiando di dare messaggi equivoci o banalizzanti.

Crediamo quindi sia sano imparare a mettere un confine, a liberarci dalla smania di dover dire qualcosa a tutti i costi e tutti i giorni.

Il punto in ogni caso non è la frequenza ma l’intenzione: ho desiderio autentico di annunciare qualcosa che ha realmente toccato la mia vita o semplicemente devo tenere in vita il mio progetto ?

Non dimentichiamo che evangelizzare significa toccare due aspetti molto delicati: l’annuncio cristiano e il cuore ferito delle persone (il nostro e quello di chi incontriamo). Questo richiede la complicata arte di sposare insieme carità e verità senza cedere alla tentazione di usare la verità come una clava contro gli altri. Ma come fare per conciliare quest’arte con le dinamiche social dove regna un approccio per slogan e quasi sempre non sappiamo chi c’è di fronte a noi?

3 – Evangelizzatori o militanti?

A volte capita di incontrare approcci che hanno più il sapore della militanza politica e dell’ideologia piuttosto che dell’autentica carità evangelica.

Nella sua prima Esortazione Apostolica papa Francesco, parlando delle tentazioni degli operatori pastorali, lanciava un monito: «no alla guerra tra noi!» (EG, 98). Sottolineava infatti come alcuni, più che appartenere alla Chiesa intera, con la sua ricca varietà, finiscono per sentirsi più legati a questo o quel gruppo che si sente differente o speciale. Così facendo si sentono in diritto (o addirittura in dovere) di salire sul piedistallo per “sparare” sugli altri con tutte le più nobili intenzioni.

Ma non possiamo fare evangelizzazione contro qualcuno, sia esso appartenente alla chiesa o meno, la chiamata non è mai a demolire, ma a costruire, promuovendo una cultura del rispetto, del dialogo, dell’amicizia.

Ecco allora due piccoli consigli per vigilare su questo rischio:

  • Conta fino a 10 prima di scrivere, rispondere o parlare e chiediti: «con queste mie parole costruisco o demolisco? Porto unità o semino divisione?». La violenza verbale, la diffamazione, il pettegolezzo, non possono essere il mezzo con cui diffondere o difendere il bene.
  • Certo può capitare che qualcuno ci critichi, ci attacchi o semplicemente scriva cose che non condividiamo. Allora, come suggerisce il papa, il primo atto concreto di evangelizzazione da fare è pregare per lui: «Pregare per la persona con cui siamo irritati è un bel passo verso l’amore, ed è un atto di evangelizzazione. Facciamolo oggi! Non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno!» (EG, 101).

4 – Dal profilo al volto

I social creano connessioni: noi stessi attraverso questo canale abbiamo conosciuto realtà e persone interessanti, con cui ci sono nate collaborazioni, incontri ed amicizie.

A nostro avviso questo è un buon uso dei social: passare dal virtuale al reale, dal “profilo” al volto, da un’indistinta massa più o meno numerosa di follower all’incontro personale con ciascuno, per quanto possibile. In fondo ciascuno di noi non ha bisogno di una community, ma di una comunità con cui camminare.

Non possiamo fare dei social un surrogato delle relazioni interpersonali. Il rischio concreto è lo scollamento tra vita sui social e vita reale, in una specie di schizofrenia mascherata da nobile apostolato.  Il papa nella Laudato Si’ lo dice molto bene:

« le dinamiche dei media e del mondo digitale, […] quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità.

[…] le relazioni reali con gli altri, con tutte le sfide che implicano, tendono ad essere sostituite da un tipo di comunicazione mediata da internet. Ciò permette di selezionare o eliminare le relazioni secondo il nostro arbitrio, e così si genera spesso un nuovo tipo di emozioni artificiali, che hanno a che vedere più con dispositivi e schermi che con le persone e la natura. I mezzi attuali permettono che comunichiamo tra noi e che condividiamo conoscenze e affetti. Tuttavia, a volte anche ci impediscono di prendere contatto diretto con l’angoscia, con il tremore, con la gioia dell’altro e con la complessità della sua esperienza personale. Per questo non dovrebbe stupire il fatto che, insieme all’opprimente offerta di questi prodotti, vada crescendo una profonda e malinconica insoddisfazione nelle relazioni interpersonali, o un dannoso isolamento». (LS, 47)

5 – Non confondere vocazione con auto-chiamata

Last but not least, un aspetto che, in un certo, senso fonda tutti i punti precedenti e lo introduciamo con questa domanda di don Oreste Benzi che provocatoriamente chiedeva: «Tu servi Dio per costruire il Suo Regno o ti servi di Dio per costruire il tuo regno?».

La domanda è cruda, ma necessaria. Ciò che stiamo facendo sui social è risposta ad una chiamata che viene dalla vita e che è stata verifica nella Chiesa oppure, gratta, gratta, stiamo solo rispondendo al nostro bisogno di approvazione e riconoscimento?

Ci siamo mai chiesti: ciò che faccio lo vuole il Signore? Cosa porto? Chi porto? Porto Cristo o porto me stesso?

Dobbiamo essere consapevoli che nelle dinamiche dei social network c’è ben poco che si coniuga con la vita nuova del cristiano che è una vita di libertà da se stessi, di libertà dal proprio ego. La logica dei social tende piuttosto ad alimentare l’ego dell’uomo vecchio: il protagonismo dell’individuo che c’è in noi e che cerca di salvarsi affermando se stesso. Non possiamo ignorare che in ognuno di noi c’è questa dimensione ferita che cerca conferme, approvazione, riconoscimento e che facilmente si maschera dietro le più buone intenzioni.

Se il nostro bisogno di approvazione e riconoscimento non si è riconciliato nel profondo di noi, dall’aver sperimentato la paternità benedicente di Dio, molto facilmente ciò che andremo a fare sui social sarà una più o meno velata ricerca esterna di conferme. Ma ci illudiamo, se pensiamo che sarà un’approvazione esterna al nostro fare, o la popolarità dei nostri contenuti, a darci ciò che attende il nostro cuore.

C’è un test che crediamo possa aiutarci a fare un po’ di luce su questo fronte: le cose più importanti restano le più importanti? Ovvero, la mia attività sui social si concilia con la mia vocazione primaria di sposo/a, di genitore, di educatore, di religioso/a oppure tende ad essere prevaricante? Riesco a mettere confini chiari o il mio progetto social è diventato l’ambito preponderante al quale chiedo vita e nel quale gioco le mie energie migliori lasciando le briciole a tutto il resto?

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Arrivati alla fine di questo piccolo vademecum, ci accorgiamo che probabilmente la domanda di fondo che percorre questi 5 punti è quella che ci ha fatto una volta un amico: il contenitore è appropriato al contenuto?

Un balletto su Tik Tok è adatto all’annuncio che desidero condividere? Un ambiente che si gioca sui numeri e sull’immagine favorisce la libertà da sé stessi e l’ascolto dello Spirito?

Chiariamoci: il nostro intento non è demonizzare i social o invitare ad una fuga da essi, ma aprire una riflessione, lasciare aperte delle domande, mettere in evidenza insomma come sia necessario un discernimento spirituale anche su questo aspetto affinché ciascuno possa trovare il proprio modo creativo di abitare questo ambiente in modo libero e responsabile per essere nei social senza essere dei social.