Ho bisogno della tua Presenza

Franco Battiato si è spento poche settimane fa.

Noi non siamo grandi esperti di musica, ma riconosciamo che Battiato, da vero artista, con la sua musica ha saputo trovare il modo di portarci oltre, di aprirci al mistero, toccando le profondità dell’umano.

Un’ultima piacevole scoperta che abbiamo fatto nel suo repertorio e che vi invitiamo a riascoltare è L’ombra della luce dove l’intensità della musica si sposa ad una specie di supplica verso Dio: «Non abbandonarmi mai». In questa canzone si respira una pace profonda, si coglie la certezza di una presenza oltre tutte le cose, di una luce che dà senso e bellezza alla vita, si respira l’attesa di una beatitudine infinita di cui tutte le gioie dell’amore e dei sensi non sono altro che un lieve bagliore… appunto «l’ombra della luce».

Senza dubbio però il suo brano più significativo per noi resta E ti vengo a cercare, scoperto per caso quando ancora eravamo fidanzati, nel pieno del nostro innamoramento. (vedi foto)

Recentemente qualcuno ci ha chiesto di raccontare come è nata la nostra storia d’amore (un abbraccio ad Alberto e Alessandra) ed è curioso che nel fare memoria del nostro fidanzamento mi siano tornate alla mente proprio le parole di questa canzone.

Quando l’ho ascoltata per la prima volta circa sedici anni fa, per me è stato incredibile… sono rimasto a bocca aperta, perché mi sono sentito leggere dentro.

E ti vengo a cercare

Anche solo per vederti o parlare

Perché ho bisogno della tua presenza

Per capire meglio la mia essenza.

Sentivo dare voce e volto ai moti interiori del mio cuore, che aveva da poco scoperto di non riuscire più a fare a meno di Giulia. Sperimentavo come lei fosse misteriosamente entrata nel mio cuore, non riuscivo a non pensare a lei, non riuscivo a cambiare «l’oggetto dei miei desideri»… ed era bellissimo essere ricambiato.

Avevamo scoperto un legame profondo, inaspettato, qualcosa che ci univa intimamente, come condividessimo davvero le stesse radici, pensati insieme da sempre in un disegno più grande di noi.

Immersi nell’amore, ci cercavamo perché avevamo gustato come la presenza dell’altro fosse davvero in grado di svelarci di più a noi stessi: passavamo ore intere a parlare, ad ascoltarci, curiosi di scoprire cosa pensava l’altro, come vedeva il mondo, la vita, il futuro…  

Davanti a noi si spalancava un orizzonte di bellezza… come se fossimo avvolti in qualcosa di più grande.

L’amore con il suo mistero, con le sue «meccaniche divine», ci stava piano piano rivelando la nostra identità e il nostro destino: Io sono per te! Tu sei per me! Siamo un dono l’uno per l’altro. Insieme chiamati ad essere “uno” nell’amore.

Oggi, a distanza di molti anni, riascoltare questa canzone mi commuove ancora, ma non è semplice nostalgia del periodo inebriante dell’innamoramento, è piuttosto la viva meraviglia di fronte al mistero grande dell’amore.

Certo oggi è più forte la tentazione di dare l’altro per scontato, di pensare di conoscerlo, di non avere bisogno della sua presenza per capire meglio me stesso, eppure non posso non riconoscere come in questi anni la presenza di Giulia con la sua femminilità (e con tutte le differenze e le tensioni che ciò comporta) è stata un dono insostituibile per il mio cammino di uomo, uno dono di cui non posso e non voglio fare a meno.

In più, essendo oggi più consapevole di allora sul mistero racchiuso nel sacramento del matrimonio posso gustare ancora più profondamente quanto l’amore sia davvero «un’immagine divina» del mistero di Dio, per noi cristiani dell’amore del Padre rivelato in Cristo. Un amore che, ci stiamo accorgendo ogni giorno di più, non ha a che fare col romanticismo, bensì col mistero Pasquale, ovvero con il dono concreto e quotidiano della vita.

Ma ancora di più, oggi posso riconoscere in questa canzone non soltanto una stupenda celebrazione dell’amore umano, ma anche i tratti nitidi di una preghiera. Riesco a vedere queste parole non solo rivolte alla donna che amo, ma anche a Cristo, perché sento sempre più intimamente come solo la Sua presenza, può condurmi alla verità di me stesso.

La fecondità che non ti aspetti

Il pomeriggio di Natale, come da tradizione, abbiamo guardato un cartone animato, e quest’anno, per la prima volta su Netflix e non al cinema, abbiamo visto Klaus – I segreti del Natale, che in realtà è del 2019. Ne avevano parlato gli amici di  Cattonerd (qui) e così ci siamo fidati.

Si tratta della rivisitazione della nascita di Babbo Natale e ci ha colpito tanto la versione che viene raccontata. Ci ha colpito perché parla di una ferita che ci tocca da vicino, ma soprattutto perché mostra tanto quanto una catechesi di don Renzo Bonetti, o di chi per lui, che la sterilità non è mai l’ultima parola, e che dall’amore tra un uomo e una donna nasce sempre qualcosa.

Nel corso della storia infatti (di seguito vi avverto che c’è un piccolo spoiler), si scopre che Klaus, quel solitario taglialegna che vive in fondo ad un bosco e che possiede un magazzino stranamente pieno di giocattoli, nasconde un grande dolore: la perdita della moglie tanto amata, con la quale ha atteso per anni che arrivassero i figli desiderati da entrambi, figli che non sono mai arrivati. I bellissimi giocattoli fatti a mano sono proprio frutto di quell’attesa, frutto di quel desiderio coltivato da entrambi.

Dopo essere rimasti inutilizzati per tanto tempo, sarà proprio grazie al dono di questi giocattoli ai bambini della vicina città di Smeerensburg, che gli abitanti di questa cupa e inospitale cittadina, da violenti, tristi e vendicativi, inizieranno piano piano a cambiare volto e atteggiamento, in una catena di atti di generosità e bontà, che giungerà progressivamente a cambiare il loro cuore e le loro relazioni.

Ecco come un cartone animato mostra in modo molto semplice il senso profondo nascosto nell’apparente sterilità di una coppia.

Se c’è l’amore tra sposi, nasce la vita. Sempre. In qualche forma diversa e creativa, certamente non quella che ci si era immaginati, ma nasce, perché l’amore genera la vita.

Se c’è l’amore tra sposi, non si rimane soli, perché l’amore si dilata, coinvolge e per sua forza propria aumenta le relazioni.

Se c’è l’amore tra sposi, Dio dona sempre i figli che ogni coppia ha promesso di accogliere il giorno delle nozze. Solo che spesso dimentichiamo che i figli, per Dio, non sono solo quelli generati nella carne, ma sono quelli che Lui vuole donare, secondo il suo progetto: «A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.»

Se c’è l’amore tra sposi, Dio mantiene la promessa contenuta nella sua benedizione primordiale: «Siate fecondi e moltiplicatevi». La mantiene con i Suoi tempi, che quasi sempre non sono i nostri o quelli che vorremmo, e la mantiene secondo quello che ha preparato per noi, spesso molto più creativo e inaspettato di quello che possiamo immaginare. Stando alla storia di Klaus: come poteva immaginare quel semplice taglialegna che invece di fare contenti solo i suoi 3-4 figli, ne avrebbe resi felici migliaia, tanto da essere chiamato “Babbo” da tutti i bambini del mondo?

Se c’è l’amore tra sposi, la famiglia lì ha inizio e non solo quando nasce un bambino. Già, perché l’amore genera la vita. Genera l’altro, genera il noi di coppia, genera quella relazione accogliente che diventa “culla” e “focolare” sia per i figli che eventualmente nasceranno, ma anche per chi si incontra nel cammino. E spesso, a questo proposito, dimentichiamo che per noi cristiani il sacramento del matrimonio riguarda la coppia e non la famiglia, nel senso che è l’amore tra l’uomo e la donna ad essere sacramento dell’amore di Cristo.

Se c’è l’amore tra sposi e c’è il desiderio di camminare secondo il progetto di Dio e non secondo il proprio, l’happy ending è garantito. Ma non è garantito nel senso che prima o poi un figlio arriverà, è garantito nel senso che è Dio stesso che ci renderà fecondi, in modo inatteso e inaspettato, ma accadrà, se ci apriamo a Lui e accogliamo ciò che vuole donarci.

La fecondità infatti è sempre quella che non ti aspetti perché non si programma a tavolino, non è una “soluzione fai-da-te” e non è un progetto da perseguire: la fecondità, per qualsiasi coppia, sboccia e accade, perché è un dono.

Sì, per qualsiasi coppia, ma anche per qualsiasi persona perché, non dobbiamo dimenticarlo, la fecondità in fondo riguarda tutti: l’essere generativi in senso largo, ampio, è di tutte le persone, di qualsiasi condizione e in qualsiasi stato vocazionale si trovino. Essere fecondi è essere come Maria: aperti alla volontà di Dio e al suo progetto personalissimo su ciascuno di noi.

Check-up del tuo fidanzamento in 5 punti

Abbiamo parlato da poco di fidanzamento, a proposito della castità, ma vogliamo tornare sull’argomento per una giovane amica che qualche tempo fa ci ha condiviso le fatiche che sta vivendo nella relazione con il suo ragazzo. Sono entrambi bravi ragazzi, hanno poco più di vent’anni, si vogliono bene e ragionano già di matrimonio, ma si stanno scontrando con le loro differenti sensibilità e attese e con la fisiologica fatica di armonizzarle.

Come andare incontro all’altro pur rimanendo sé stessi?

Se amare è mettere l’altro al primo posto, perché non mi sento la prima cosa per lui?

Come continuare ad amare senza rivendicazioni quando l’altro pare preso solo dalle sue cose?

Ascoltandola e vedendo le sue sincere lacrime, ci si è allargato il cuore e abbiamo rivisto in loro anche molte nostre difficoltà relazionali vissute durante il fidanzamento (ed anche dopo a dire il vero).

Difficoltà oggi in larga parte superate ma, come spesso accade, a caldo risulta complicato ricostruire i passaggi che ci hanno aiutato a cambiare prospettiva e a maturare e quindi, benché vorresti trovare la parola giusta da donare, ti ritrovi semplicemente ad offrire un po’ di ascolto fraterno.

Ora però, a mente fredda, qualche ispirazione ci è venuta, e quindi vogliamo provare di buttare giù alcuni pensieri sperando che questa amica (e non solo lei) possa trovare qualche spunto utile. Cinque pensieri essenziali per un piccolo check up del proprio fidanzamento.

1 – Amarsi non fa rima col capirsi al volo

Come prima cosa crediamo che occorra sfatare il mito dell’amore come intesa perfetta. Nel nostro immaginario è purtroppo viva (in modo più o meno consapevole) l’idea che aver trovato l’amore significhi aver trovato qualcuno con cui ci si capisce al volo, qualcuno capace di comprendermi, di anticipare i miei bisogni, di saziare la sete del mio cuore, il tutto in modo spontaneo, quasi che le parole siano un di più.

Purtroppo, o meglio per fortuna, non è così. Ne parlavamo anche commentando la canzone vedi cara di Guccini: come può un’altra persona limitata e fragile come noi essere in grado di saziare le attese del nostro cuore?

Il fatto che ci innamoriamo di una persona e che questa persona ricambi il nostro amore è un dono grandioso, ma non possiamo pensare che questa esperienza ci eviti l’incontro-scontro tra le due libertà in gioco. Ognuno di noi si trova di fronte all’altro con tutto il proprio bagaglio di storia famigliare, di ferite, paure, attese, capacità e desideri che necessariamente non può coincidere con quello dell’altro.

2 – È nella differenza il segreto della creatività

È proprio la differenza insita nel maschile e nel femminile e nelle diverse personalità che si nasconde il segreto di una relazione creativa e appassionante. È nella relazione con l’altro che mi conosco, e scopro sempre più profondamente i mei doni e i miei limiti, e tanti aspetti che non conoscevo di me, o su cui avevo una prospettiva parziale o distorta.

È sempre molto pericoloso entrare in una relazione presumendo di avere già capito tutto, di sapere già cosa è giusto e cosa non lo è senza permettere all’altro di scalfire le nostre convinzioni. Credo sia il tipico difetto dei “bravi ragazzi”, quelli impegnati, quelli osannati perché sempre brillanti, diligenti e disponibili. Lo dico per esperienza personale, io (Tommy) ero uno di questi “bravi ragazzi” e all’inizio del nostro fidanzamento ho fatto molto soffrire Giulia per il mio atteggiamento presuntuoso: ero convinto di essere il solo a sapere cosa fosse giusto per noi.

Solo quando qualcuno ci ha aiutato a capire un po’ meglio il dono nascosto nella nostra differenza, ho potuto iniziare ad aprire gli occhi su questa mia povertà. È stata una crisi feconda perché ho progressivamente capito che insieme è più bello e che al di là della mia e della sua prospettiva, ce n’era una nuova, più ampia e più vera: la nostra.

3 – È la meta a determinare il cammino

Altro elemento chiave è il significato che si sceglie di dare al tempo del fidanzamento. Oggi è largamente diffusa l’idea che avere il ragazzo o la ragazza significhi avere finalmente qualcuno che arriva a colmare la mia solitudine, qualcuno con cui “on demand” posso condividere le mie passioni e fare cose: vacanze, viaggi, serate, esperienze, sesso ecc. Insomma, una specie di app da attivare al bisogno.

Si tratta però di un equivoco drammatico, perché l’epicentro del fidanzamento non sono “io”, ma siamo “noi”: c’è una relazione da costruire! Il fidanzamento non è un comodo parcheggio, ma un cammino avventuroso da percorrere in due e, come per ogni cammino che si rispetti, è la meta a determinare il sentiero da percorrere e l’attrezzatura da portare.  È un po’ come quando vai a camminare in montagna e vuoi arrivare in vetta a 3000 metri: sai che devi portarti una certa attrezzatura e sai che devi scegliere la difficoltà del sentiero in base alle tue capacità.

La meta, il fine, del fidanzamento è il matrimonio. Lo so, può sembrare una cosa all’antica, ma a ben vedere c’è poco da girarci introno: nessuno inizia una storia d’amore pensando ad una data di scadenza, quando due si amano davvero, il desiderio è arrivare a condividere tutta la vita (per approfondire il matrimonio come vocazione potete leggere l’articolo: una valigia per due). Solo tenendo gli occhi fissi su questo orizzonte è possibile camminare senza perdere l’orientamento.

C’è però un altro elemento essenziale di questo cammino che non va sottovalutato: occorre trovare un compagno di viaggio, una guida. È ingenuo pensare che bastiamo noi due… serve qualcuno più esperto di noi, più avanti di noi nel cammino capace di darci le giuste dritte: un padre spirituale, una coppia di amici… Qualcuno che non essendo, come noi, coinvolto nelle dinamiche della relazione possa parlarci con franchezza per il nostro bene, sostenerci e correggerci.

4 – Camminare è per conoscersi

Se il fidanzamento è mettersi in cammino verso il matrimonio, allora più che “fare cose”, diventa cruciale avere a cuore il desiderio di conoscersi reciprocamente sempre più a fondo e di capire se effettivamente siamo chiamati a questo. È quindi un tempo prezioso ed insostituibile di verifica e di conoscenza, un cammino da fare senza paure, senza fretta, ma da percorrere con convinzione. E bisogna anche mettere in conto la possibilità che le nostre strade ad un certo punto si possano separare. Un conto però è comprenderlo a vent’anni quando ci si è volutamente dati un tempo per farlo, un altro conto è accorgersene a quaranta quando magari ci sono già in ballo dei figli e tanto altro.  

È per questo, che non sarebbero da contemplate frasi del tipo: «so che di questo con lui non posso parlare», oppure «di queste cose parleremo quando saremo sposati», o ancora «quando saremo sposati sarà diverso… ». Se non si investe in questo tempo, se non lo si sfrutta per confrontarsi su tutto (cose comode e meno comode) se non si parla di come ci si immagina la vita famigliare, i figli… se non si condividono in questa fase le aspettative sulla vita, sul lavoro, sulle relazioni, ecc… quando si pensa di farlo? Allora forse, converrebbe passare meno serate a sciropparsi serie tv e dedicare più di tempo al dialogo, magari aiutati da un buon libro o a fare insieme esperienze di crescita.

Certo il conoscersi è un processo che non potrà mai dirsi del tutto concluso: non si cesserà mai di conoscere più a fondo l’altro e se stessi anche dopo il matrimonio… ma partire bene, al momento giusto è fondamentale.

5 – Conoscersi è per amarsi

Giovanni Paolo II diceva che «L’amore non è una cosa che si può insegnare, ma è la cosa più importante da imparare». Si, l’amore è qualcosa da imparare perché anche quando le nostre intenzioni sono sincere, dobbiamo inevitabilmente scontrarci con due pesanti macigni: da un lato il fatto che istintivamente siamo tutti centrati su noi stessi e non ci viene spontaneo mettere davanti un’altra persona, dall’altro il fatto che per comunicare l’amore occorre sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda di qualcun altro radicalmente diverso da noi e la cosa non è affatto scontata.

Amare è un’arte a cui lasciarsi iniziare, perché non basta provare un certo sentimento per qualcuno, per poter dire di amarlo. L’amore è concreto, è fattivo, si coinvolge con l’altro… che i sentimenti ci siano è quasi ovvio, se no neanche ci si sarebbe imbarcati in una storia, molto meno ovvio è riuscire a comunicarsi l’amore.

Io posso scriverti decine di messaggini appassionati con emoticon e cuoricini, posso comporre per te dediche strappalacrime da postare sui social, ma se poi se non trovo il tempo per stare con te, per farti sentire importante, per interessarmi alla tua vita e farti spazio nella mia, ecc.… come posso dire di amarti?

Il fidanzamento è quasi un corso di lingue. Occorre l’umiltà di imparare il linguaggio dell’altro, cosa lo fa sentire amato e cosa no. È un po’ come quando facciamo un regalo a qualcuno e dobbiamo lasciare da parte i nostri gusti per provare di indovinare le attese del festeggiato al fine di trovare qualcosa che lo renda felice… lo stesso è con i linguaggi dell’amore. Ed è straordinario quando l’altro riesce a balbettare qualcosa per noi nella nostra “lingua”.

Ecco qui 5 pensieri o poco più… nessuna pretesa di esaurire l’argomento, solo il vivo desiderio che tra essi possa nascondersi una scintilla per la vita di questa cara amica e non solo.

I nostri auguri ai Ferragnez

Cari Chiara e Federico,

vi conosco da poco, da quando sono sbarcata su Instagram qualche mese fa, e da quando ho iniziato a seguirvi devo ammettere che mi siete simpatici e mi sono dovuta ricredere su alcuni pregiudizi che avevo su di voi.

All’inizio guardavo le vostre stories e avevo l’impressione che viveste in un mondo drasticamente distante dal mio, tutto luccichii e lussi che in pochi possono permettersi.

Chiara, parliamoci chiaro, dell’appartamento lussuoso in cui vivi nel quartiere CityLife di Milano con la tua adorabile famiglia, a parte la macchina per il caffè che abbiamo uguale, io non potrei permettermi probabilmente nemmeno un divano. Per non parlare del tuo strabordante guardaroba, che la maggior parte delle volte abbini in maniera improbabile, ma che rimane uno dei sogni proibiti di ogni donna. E quanto ho bonariamente invidiato quest’estate i vostri continui viaggi in giro per la nostra meravigliosa Italia, coccolati con cene che solo la mise en place era una meraviglia.

Già, tutte queste cose mi fanno pensare che le nostre vite siano molto distanti.

Ma poi, quando vedo che ti si illuminano gli occhi quando sei con il tuo Leoncino e quando vedo te e Fede abbracciati e innamorati come una qualsiasi coppia, penso che in realtà siamo molto più vicine di quanto possa sembrare ad un primo sguardo. E siamo vicine perché siamo donne, e come donne siamo felici se abbiamo un uomo accanto che ci ama e se questo amore ci dona un figlio. Ecco la somiglianza più profonda al di là di tutte le dissomiglianze esterne e superficiali.

Ma veniamo al motivo principale di questa lettera: come sanno bene tutti i vostri affezionati follower, il primo settembre è stato il vostro secondo anniversario di nozze, e mi sono emozionata anch’io guardando il video che avete pubblicato, riascoltando le promesse personalizzate che vi siete scambiati il giorno del vostro matrimonio.

Vi siete detti delle cose molto belle e significative. Chiara commossa hai detto a Fede: “Non ho bisogno che il mondo mi ami, ho bisogno che mi ami una sola persona, e sei e sarai sempre tu.”

Fede altrettanto commosso hai detto a Chiara: “Bukowski diceva che l’essere umano ha due grandi difetti: l’incapacità di arrivare in orario e l’incapacità di mantenere le promesse. Io non posso garantirti che sarò sempre in orario ma ti prometto che anche se in ritardo ci sarò per sempre.”

Amore ed eternità. C’è qualcosa di grande nelle vostre parole, e non mi riferisco alla citazione di Bukowski, ma alla parola «sempre» che entrambi avete pronunciato. C’è qualcosa di profondo in questo desiderio di amore eterno che palpita nel vostro cuore e vi ha spinto a promettervi fedeltà nel matrimonio. E a questo proposito, una citazione la sfodero anch’io, ma in questo caso si tratta di Wojtyla, alias Giovanni Paolo II, che ne La bottega dell’orefice scrive: «L’amore non è un’avventura, […] non può durare solo un momento. L’eternità dell’uomo passa attraverso l’amore. Ecco perché si ritrova nella dimensione di Dio – solo lui è Eternità».

Cara Chiara, hai proprio ragione, ciò che conta e dà pienezza alla vita non è avere milioni di follower, ma amare e lasciarsi amare da una persona reale in una quotidianità reale, e chi più di te può dirlo con piena consapevolezza? Ma sai, questa tua frase mi lascia anche un pizzico di preoccupazione: sei proprio sicura che il tuo Federico saprà amarti sempre come il tuo cuore di donna desidera? Non pensi che potrà deluderti ogni tanto, che potrà fallire qualche giorno nell’amarti? Non per cattiveria, te lo assicuro, ma perché è un essere umano come te, e per quanto potrà amarti ciò rimarrà comunque limitato, rimarrà qualcosa di piccolo per ciò che di immenso il tuo cuore desidera.

Ecco allora il mio augurio per te, Chiara, che l’amore che sperimenti con Fede possa essere il trampolino di lancio per conoscere un amore ancora più grande, l’Amore di Chi ti ha pensata e creata, di Chi ti ama da sempre, anche quando non sei amabile per niente, di Chi ti ha donato Federico e di Chi ti ha donato Leoncino. L’Amore ha un nome e un volto, e io ti auguro di incontrarlo un giorno.

Caro Federico, la promessa che hai fatto a Chiara mi intenerisce: mi fa intuire come nel cuore di ogni l’uomo, l’amore è qualcosa di esclusivo e non può essere pensato a scadenza. Mi intenerisce però anche perché penso che con queste parole ti sei fatto carico di un peso molto più grande di te. Mi chiedo, come fai ad essere sicuro che ci sarai sempre? Credi davvero di poterlo fare da solo?

Il mio augurio per te, Fede, è che tu possa piano piano imparare a non contare solo sulle tue sole forze, perché sai è anche pochettino presuntuoso, ma che tu scopra un po’ alla volta che c’è Qualcuno a cui affidarsi, Qualcuno che ama e dona anche se al ritardo aggiungiamo l’assenza, Qualcuno pronto a garantire per te, non al posto tuo beninteso, ma insieme a te.

È quel Qualcuno che ha acceso in te il desiderio per Chiara, è quel Qualcuno che ti sta rendendo partecipe in maniera gratuita dell’amore, una delle pochissime cose che non si possono comprare.

Il nostro augurio, in fondo, cari Ferragnez è che il vostro sincero desiderio di amarvi per sempre, vi conduca passo dopo passo a scoprire il volto dell’Amore, il volto del Dio di Gesù Cristo. Perché davvero, «al di là di tutti questi amori che ci riempiono la vita, c’è l’Amore» e vive in continua attesa di noi.

Una valigia per due

Alcune settimane fa, nel preparare un incontro in streaming con un gruppo famiglie della nostra diocesi, abbiamo avuto occasione di riprendere in mano Amoris Laetitia.

Rileggendo alcuni passaggi, c’è stata una frase che questa volta ci è risuonata in modo particolare, facendoci ripensare alla nostra esperienza pre e post matrimoniale. Per maggiore chiarezza evito sintesi e riporto interamente il passaggio di papa Francesco:

«Il matrimonio è una vocazione, in quanto è una risposta alla specifica chiamata a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Pertanto, la decisione di sposarsi e di formare una famiglia dev’essere frutto di un discernimento vocazionale.» (AL, 72)

Di fronte a questo testo, anche per il fatto che si stava avvicinando il nostro anniversario, è sorta in noi questa domanda: ma noi, da fidanzati, quanto ne eravamo consapevoli?

Purtroppo la risposta è: molto molto poco!

A dire il vero, che il sacramento del matrimonio fosse una vocazione, lo avevamo sentito dire spesso, sia nella nostra formazione giovanile sia nel nostro fidanzamento.

Ma di fatto l’idea che ci avevano trasmesso era quella che la vocazione fosse, in fondo, l’alternativa tra due strade. Ovvero si trattasse di un orientamento personale o verso il matrimonio o verso la vita consacrata… Detta un po’ brutalmente, l’idea era: hai una ragazza, le vuoi bene e non hai mai sentito attrazione per la vita consacrata? Ok, allora la tua vocazione è il matrimonio.

Per cui, capita la direzione da prendere, subentravano tutti i percorsi per vivere bene il fidanzamento e prepararsi al matrimonio, percorsi che però, almeno nella nostra esperienza, hanno sempre avuto un’impronta di tipo morale-psicologico. I temi che andavano per la maggiore erano gli strumenti per crescere nella relazione: come impostare bene il dialogo di coppia, come fare posto a Dio con la preghiera, come vincere i nuclei di morte che possono insinuarsi nella coppia, come affrontare l’arrivo dei figli, come inserirsi nel proprio ambiente parrocchiale e famigliare, ecc…

Per carità, cose importanti, nessuno però ci aveva mai detto che la vocazione al Sacramento del Matrimonio è la risposta ad una chiamata di Cristo a vivere il nostro amore di coppia come segno imperfetto del suo amore per l’umanità.

L’amore, si sa, è un tema sempre controverso, alcuni amici non a caso lo definiscono “ingannevole”. Per quanto riguarda il Sacramento del matrimonio però, come attesta il passaggio di Amoris Laetitia da cui siamo partiti, non si parla genericamente di “volersi bene”, ma di un amore con un’impronta precisa: l’amore di Cristo per la Chiesa.

Come Cristo ha amato la Chiesa? Dando la sua vita per lei! È stato disposto a morire perché lei potesse vivere una vita nuova e più piena.

È quindi un amore capace di dire all’altro: «ho scelto te, al posto di me».

Probabilmente da fidanzato prossimo alle nozze o da novello sposo, se qualcuno mi avesse chiesto “Sei disposto a dare la tua vita per Giulia?”, immaginando appassionate gesta eroiche, avrei risposto senza pensarci due volte: «Certo! La amo, se dovesse capitare un pericolo, sarei disposto a morire per salvarla!»

Ma restava comunque un’ipotesi estremamente remota e, in fondo, il mio immaginario della vita matrimoniale era allora quello di un viaggio romantico ed appassionante, in cui tutto sarebbe stato bello ed entusiasmante. 

Ben presto però mi sono accorto di come la realtà smaschera le aspettative: ad un certo punto, l’impressione era quella di risvegliarmi accanto ad una specie di estranea, diversa dalla fidanzata tenera e amabile a cui il giorno delle nozze avevo detto «Io accolgo te …». Certo, era sempre lei, ma accanto alle cose belle, emergevano anche aspetti sconosciuti, fragilità e limiti tutt’altro che semplici da accogliere. E lo stesso chiaramente era vissuto da lei nei miei riguardi.

All’altare le avevo detto «Io accolgo te…» , ma in fondo, dentro di me, l’idea era: «Io accolgo te purché tu sia sempre carina, amorevole, dolce e comprensiva…»

Lentamente, ho compreso che questo “dare la vita” non passava attraverso eclatanti gesta eroiche, ma attraverso un accettare di morire quotidianamente. Cosa facile a dirsi, ma profondamente lacerante quando sei attaccato alle tue ragioni e ai tuoi modi di vedere le cose e l’altro esce deliberatamente dai tuoi schemi e non li accetta semplicemente perché è diverso da te.

Ricordo che durante un corso per fidanzati ci avevano detto che la relazione matrimoniale è paragonabile ad un viaggio nel quale di due valigie (quelle di ciascuno) occorre farne una sola insieme.

È evidente che in una valigia sola non può entrarci tutto e occorre fare delle rinunce. In me la cosa era abbastanza chiara: c’erano delle rinunce da fare, bisognava trovare un buon accordo, ma il viaggio valeva la pena.

Ciò che non immaginavo era che lungo il cammino, a volte, il bagaglio pesa, e per proseguire occorre lasciare indietro qualcosa… non immaginavo nemmeno che, a mano a mano che si fanno nuove esperienze insieme, occorre fare nuovo spazio ed imparare a fare a meno di qualcos’altro per non perdersi le cose belle. E soprattutto, mai avrei immaginato che anche certe cose spiacevoli che ti ritrovi senza volerlo nella valigia possono rivelarsi occasioni di vita.

Quando ci siamo sposati, proprio non lo immaginavo, ma davvero la chiamata alla vita matrimoniale è una chiamata ad un amore pasquale in cui uomo e donna sono disposti a donarsi reciprocamente la vita. 

Dopo undici anni di matrimonio posso dire che ne vale la pena, perché ad ogni morte per amore è seguita sempre una risurrezione, ad ogni rinuncia è seguito sempre un dono più grande, ad ogni spossessamento, una maggiore libertà, ed oggi quando ci guardiamo negli occhi la gioia è più grande di undici anni fa.

Tornando alla vocazione al matrimonio, siamo sempre più convinti che il Signore, se chiama a vivere un amore come il suo, non lo fa per masochismo, ma perché vuole dilatare il nostro piccolo amore e renderlo capace di cose sempre più grandi. Non a caso nel Sacramento del matrimonio viene effuso sugli sposi lo Spirito Santo che, se accolto, dona la grazia di amare come Cristo ha amato, nel dono sincero di sé.

Crediamo e speriamo che ci sia ancora tanto da camminare e da trafficare con quella benedetta valigia, ma abbiamo toccato con mano che non siamo soli. Lo Sposo è qui e la porta con noi.

Caffè teologico di coppia

Non so voi, ma per noi pregare insieme è sempre stata una sfida.

Lasciamo stare l’imbarazzo iniziale, da cui sono ormai passati tanti anni.

Le difficoltà di oggi sono principalmente scegliere la modalità (condivisione sul Vangelo del giorno o lettura continuativa della Bibbia? Preghiera spontanea o decina del rosario? La mattina o la sera? Tanto per dirne alcune!) e portarla avanti con perseveranza… tutto insomma!

In questa quarantena, durante la quale siamo a casa entrambi, ci siamo dapprima mossi un po’ a casaccio, ma poi abbiamo sentito l’esigenza di trovare un modo soddisfacente per pregare insieme, perché se non lo facciamo ora che condividiamo il tempo e lo spazio tutto il giorno, quando lo faremo? Non volevamo perdere questa occasione preziosa: può essere infatti il momento opportuno per iniziare una buona abitudine da mantenere, con i dovuti aggiustamenti, anche quando si tornerà alla normalità.

Così abbiamo deciso di sperimentare un po’ di strade e abbiamo trovato la formula che fa per noi, almeno in questo tempo.

Innanzitutto abbiamo pensato di tenere fermo lo spazio di preghiera personale che ciascuno di noi fa il mattino, meditando le letture del giorno. Come dice il nostro padre spirituale, è il cibo della giornata, è il pane che il Signore ogni giorno ti offre, e proprio perché Lui è vivo e presente nel qui e ora, anche la Sua Parola ci parla in modo personale, giorno per giorno. E infatti abbiamo sperimentato tante volte di ricevere proprio ciò di cui avevamo bisogno: una parola di consolazione, o di incoraggiamento, o una conferma rispetto a qualche scelta, o ancora, una parola di speranza.

Certo ci sono poi giorni, ma anche periodi interi alle volte, in cui sembra che la Parola non ci dica nulla… a volte perché siamo noi ad avere il cuore lontano e chiuso, altre volte invece perché è semplicemente così: come in tutte le relazioni, ci sono momenti in cui non abbiamo molto da dirci, ma questo non significa non poter godere della Sua presenza.

La preghiera personale è quindi per noi un momento irrinunciabile di incontro a tu per tu con il Signore e sentiamo l’esigenza di coltivarlo, convinti che non possa essere sostituibile dalla preghiera di coppia.

Ma accanto a questo spazio, ci mancava un momento da vivere insieme e quindi abbiamo deciso di fare seriamente e con continuità quello che già da tempo ci era stato consigliato, ma che fino ad oggi non eravamo riusciti a fare con costanza.

Il suggerimento era molto semplice: prendersi qualche minuto per condividere insieme ciò che il Vangelo del giorno ha fatto risuonare in noi nella preghiera personale, rispetto a quello che viviamo quel preciso giorno o periodo. In questo modo possiamo passare da una dimensione individuale, a una di coppia: cosa il Signore dice a noi come coppia, come si fa presente tra noi, cosa ci vuole comunicare come sposi?

Scelta la modalità, per aiutarci nella perseveranza, abbiamo pensato di legare questo momento ad un nostro “rito” quotidiano: il caffè del dopo pranzo. Abbiamo quindi istituito il “caffè teologico”: mentre lo prepariamo abbiamo tempo di ripensare alla Parola ascoltata il mattino e a ciò che ci ha suscitato, poi mentre lo beviamo insieme, magari godendoci un po’ di sole in giardino, condividiamo qualche pensiero. Non occorrono ore, ma solo qualche minuto in cui donarsi reciprocamente vero ascolto.

Abbiamo così scoperto un modo molto concreto e semplice per arricchirci reciprocamente e per godere dell’ispirazione creativa della Parola, tante volte infatti, ciò che uno condivide all’altro diventa pane per entrambi, e nutrimento che alimenta la comunione e l’unità tra di noi.

Quando si tornerà al lavoro non sarà più possibile prendere il caffè insieme dopo pranzo, per cui sarà necessario riprogrammare il caffè teologico, magari diventerà l’aperitivo teologico o il dopo cena teologico, vedremo, ma la nostra speranza è che aver goduto di questo momento, alimenti il desiderio e la fermezza di trovare, ancora una volta, il modo appropriato per pregare insieme.

E se fossimo tutte “famiglie ferite”?

Veglia di preghiera per le famiglie ferite, percorso diocesano per le famiglie ferite, progetto pastorale per le famiglie ferite. Ultimamente sentiamo questa espressione “famiglie ferite” sempre più di frequente e ogni volta ci verrebbe da alzare la mano dicendo “Eccoci, presenti!”. E invece il nostro alzare la mano sarebbe fuori luogo, perché è un’espressione di solito utilizzata negli ambienti diocesani ed ecclesiali in genere, per indicare le famiglie e le coppie “irregolari”, quelle divorziate e quelle divorziate risposate, per intenderci.

Ma davvero solo perché non apparteniamo a queste due categorie, noi, “gli altri” che siamo regolarmente sposati, possiamo NON dirci “famiglia ferita”?

Certo, la ferita a cui ha fatto riferimento il papa la prima volta che ha usato  questa espressione indicava una realtà precisa, ovvero quando la ferita riguarda il sacramento del matrimonio, cioè tutte quelle persone che hanno visto in qualche modo fallire il loro progetto di vita di coppia e ne portano il peso, compreso il fatto di percepire una certa diffidenza e il sentirsi non completamente accolte all’interno della stessa comunità cristiana.

E quindi, proprio noi che alle volte facciamo sentire queste persone escluse e differenti, possiamo non dirci “famiglia ferita”?

Chi di noi non ha ferite nella propria storia di coppia e nella propria storia personale (che quindi evidentemente diventano ferite di coppia pure quelle)?

Chi porta la ferita di un conflitto con la famiglia di origine, chi porta la ferita della sterilità, chi quella di un figlio con handicap, chi quella di un figlio morto prematuramente, chi porta una ferita nella propria sessualità, chi, ancora, quella di un abbandono, e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

Ci sono ferite più evidenti, che saltano più all’occhio, e ferite meno evidenti, che conoscono solo i diretti interessati, perché troppo intime, troppo dolorose anche solo da nominare.

Ci sono ferite di cui siamo consapevoli e ferite di cui non siamo consapevoli, ma di cui ugualmente portiamo il peso attraverso le nostre rigidità, le nostre false sicurezze, le nostre chiusure, le nostre difese ben serrate.

Ci sono ferite più invadenti e ferite meno invadenti, croci più pesanti da portare e croci meno pesanti, ma tutti, ripeto, tutti, siamo famiglie ferite.

Ah, e non dimentichiamoci del Sacramento del matrimonio. Solo perché il nostro pare “funzionare” pensiamo di essere sempre un’immagine impeccabile del Sacramento che abbiamo celebrato? Siamo realmente un’icona credibile dell’amore di Dio per l’umanità? Noi no, anzi.

Quanto meno perché tutti abbiamo in noi il segno di una ferita, la ferita per eccellenza, quella del peccato originale. Sì, il Battesimo ci ha fatto creatura nuova in Cristo, ma in noi resta l’inclinazione al peccato, come se fossimo su di un piano inclinato che ci porta a “peccare”, cioè fondamentalmente ad avere paura per noi stessi, spingendoci quindi a preservare e ad affermare noi stessi a scapito dell’altro. Tutti portiamo il segno di questa ferita, che ci porta a guardare con sospetto la relazione con l’altro, a temere che l’altro possa privarci di qualcosa, che possa ferirci, approfittarsi di noi, oppure che non sia interessato a noi, o ancora che ci voglia ingannare, manipolare, ecc… anche questo elenco potrebbe essere molto lungo, e la parola “altro” è da intendersi sia con la a minuscola che con la A maiuscola. Sono due facce della stessa medaglia, e se non fosse abbastanza chiaro, le ferite che porti verso l’altro (i fratelli) e verso l’Altro (Dio) sono esattamente le stesse.

Un amico mi raccontava che durante gli esercizi spirituali ignaziani ha riconosciuto in lui un pensiero ricorrente del nemico che era “A Dio tu non interessi, ha di meglio da fare, non ha tempo da perdere con te”. Mesi dopo, ha riconosciuto questo stesso pensiero verso suo padre, ricontattando il sé bambino, ripensando al fatto che il padre non è mai andato alle sue partite di basket perché, evidentemente, aveva di meglio da fare. Questo era, nella sua storia, uno degli effetti del peccato originale, che aveva intaccato l’immagine di Dio ma anche, in parte, il suo modo di relazionarsi, tendendo a rendersi sempre brillante e interessante, appunto, per il timore che le altre persone si voltassero dall’altra parte, pensa un po’.

Che ci piaccia o no questa è la nostra situazione, e ognuno porta dentro di sé una versione particolare di “contro-parola” – direbbe don Fabio Rosini – o effetto del peccato originale nella propria storia, con cui, se sarà fortunato, potrà fare i conti. La cosa peggiore che possa capitare infatti, credo sia non accorgersene e restare fermi alla superficie finendo per collocarsi sul versante di quelli non feriti, dei bravi, di quelli che hanno fatto tutte le cose a modo, o peggio, che credono di aver meritato ciò che di buono hanno nella vita a suon di buone azioni e sforzi di volontà.

Essere cristiani non significa essere bravi e perfetti, il cristiano non è uno indenne, uno che non si è mai ferito, ma uno le cui ferite sono diventate luogo di salvezza.

Il cristiano è qualcuno che ha sperimentato come il Signore si sia rivelato e lo abbia visitato proprio attraverso le ferite della sua storia, ed è testimone del fatto che queste stesse ferite sono diventate feritoie di grazia per la propria vita.

Solo così, da questa prospettiva, possiamo incontrare veramente gli altri con tutto il bagaglio di sofferenza che portano, da “famiglia ferita” a “famiglia ferita”: la Chiesa allora sarà realmente quell’ospedale da campo di cui più volte ha parlato Papa Francesco.

Di questo ci parla il Natale, di un Dio che non ha temuto di prendere un corpo come il nostro e di farsi carico delle nostre ferite, affinché le nostre fragilità potessero divenire il luogo della manifestazione della sua grazia.

“Per le sue piaghe noi siamo stati guariti”  (Is 53,5)

Buon cammino a tutti verso il Signore che viene.