Missionari digitali o aspiranti influencer? 3 bucce di banana da evitare

Recentemente un amico, che stimiamo per la sua profondità di pensiero, avendo saputo che ci sarà il giubileo degli influencer cattolici (o meglio, dei missionari digitali), ci ha detto qualcosa che ci ha fatto molto pensare:

«Spesso, l’impressione che ho guardando certi influencer cattolici è che più che rispondere a un bisogno della Chiesa stiano piuttosto rispondendo ad un loro personale bisogno. E questo bisogno personale tante volte porta fuori mira rispetto al reale bisogno della Chiesa».

Sono parole forti, forse un po’ giudicanti, ma che senz’altro contengono del vero e da questo stimolo è nata una interessante chiacchierata/riflessione sugli “approcci missionari” da social network di cui desideriamo condividervi qualche tratto saliente e che in un certo modo può essere il proseguo dell’articolo scritto qualche tempo fa su questi temi: Nei social, ma non dei social

A noi per primi sono state utili queste riflessioni non tanto perché ci sentiamo missionari digitali, tutt’altro, ma perché essendo comunque presenti sui social, ci hanno aiutato a metterci in discussione.

Allora, quale potrebbe essere il “personale bisogno” che muove tanti a farsi spazio per evangelizzare sui social, ma che rischia di portare fuori mira?

Non vogliamo fare processi alle intenzioni, anche perché occorre tenere conto che questo è un terreno complesso, dove le cose non sono mai bianche o nere, ed anche i bisogni più distorti (spesso inconsapevoli) si mescolano sempre a nobili desideri e propositi di bene, quindi occorre grande prudenza.

Abbiamo però individuato tre “bucce di banana” che nonostante le più buone intenzioni, fanno drammaticamente scivolare fuori strada, lontano dal vero obiettivo che è evangelizzare.

1)  Il bisogno di stima e riconoscimento.

Ciascuno di noi naturalmente ha bisogno di conferme, di qualcuno che gli rimandi una certa stima e considerazione. Questo ovviamente a diversi livelli a seconda delle persone e del periodo della vita: il giovane che sta costruendo la sua personalità ne ha molto bisogno, l’adulto che dovrebbe già aver consolidato una buona autostima e fiducia in se stesso, meno. Eppure, questa naturale inclinazione, nell’ambiente social rischia di degenerare.

Non di rado, infatti, dietro una certa smania di evangelizzare riposa un inappagato bisogno di conferme, di essere visti e stimati, di sentirsi qualcuno; l’idea inconsapevole per cui l’ottenere visibilità e ascolti coincida con la conferma del proprio valore.

Una spia che ci può allertare su questo fronte è quando l’essere considerati e apprezzati crea in noi una certa ebrezza, un senso di euforia e gratificazione, una smania che spinge a produrre contenuti e iniziative (spesso non richiesti) per restare sotto i riflettori. Viceversa, un senso di abbattimento e tristezza se non riceviamo le attenzioni sperate.

Ecco allora che senza rendercene conto avviene una specie di corto circuito: con il nobile intento di evangelizzare succede che mi ritrovo a nutrire il mio ego!

E il contenuto, proprio perché espressione del mio ego, diventa più importante delle persone a cui si rivolge! Ma soprattutto porta fuori mira rispetto al proposito di evangelizzare perché più che a Dio porta… all’io!

2) La smania di sentirsi abilitati a parlare di tutto

La tuttologia, che il vocabolario della lingua italiana definisce “la boriosa presunzione di saper tutto”, è una tentazione che affligge spesso anche i meglio intenzionati.

Nessuno, lo sappiamo, si sente presuntuoso di default, ma quando ci anima una certa frenesia di dire e di proporre, o ci sentiamo dalla parte dei buoni che devono difendere il buon nome della morale cattolica, ecco che senza accorgercene rischiamo di avventurarci con leggerezza e superficialità in ambiti delicati o mai veramente approfonditi.

Capita infatti che stimolati dai follower o da qualche commento caustico, o per produrre contenuti, si finisca per interpretare la Bibbia “secondo me”, per citare “San ChatGPT”, o per snocciolare a sproposito frasi fatte e slogan ascoltati, ma mai approfonditi o messi alla prova della vita.

E dobbiamo confessare che specie sul terreno della sessualità, e della teologia del corpo, ahinoi a volte ci siamo imbattuti in approcci di questo tipo! Come diceva Macario l’egiziano (monaco del IV secolo discepolo di Sant’Antonio abate) è come ascoltare qualcuno che ti parla della dolcezza del miele, ma si capisce lontano un kilometro che non l’ha mai assaggiato!

Anche così non si fa un buon servizio al Vangelo: il rischio di questo approccio è quello di dare messaggi parziali o addirittura distorti che finiscono per mancare significativamente il bersaglio e del vero bene delle persone a cui ci si rivolge, che passa sempre da una certa prudenza e dalla relazione con il caso singolo.

Occorre invocare il dono della prudenza, non basta essere in buona fede per annunciare una fede buona! Il fatto di fare qualcosa di “ufficialmente” nobile, non mi autorizza a parlare di tutto.

3) Sentirsi i paladini che difendono la fede

Spesso quando ci si sente così, capita che si creda di evangelizzare spiegando alle persone come si devono comportare e perché.
Questo atteggiamento, che potremmo riassumere nella parola “moralismo”, crea inesorabilmente divisioni e chiusure: sentirsi giudicati e trattati con superiorità spegne ogni apertura al dialogo e all’incontro.

Ecco allora servito il paradosso del moralismo: invece di costruire ponti, si alimentano sterili polemiche e dibattiti; invece di seminare bellezza e gioia, si diffondono giudizi e sentenze da veri boomer.

Papa Francesco, nell’Evangeli Gaudium (un testo che dovrebbe essere il vademecum di chiunque abbia il desiderio di evangelizzare), ricorda che l’annuncio cristiano non dovrebbe essere ossessionato dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine, ma dovrebbe concentrarsi sull’essenziale: ciò che è più bello, più grande, più attraente e più necessario. (cf. EG, 35)

Anche in questo terzo caso si cade lontano dall’obiettivo: il moralismo fa male agli altri, ma fa male anche a me perché mi fa sentire dalla parte dei buoni, dei giusti, di quelli che “hanno capito” e mi allontana dagli altri e dal riconoscere il mio bisogno di misericordia.

Ma allora che cos’è fare missione sui social?

Spiegare cosa è giusto e cosa è sbagliato?

Esibire i capi di abbigliamento “must have” per un autentico guardaroba cattolico?

Difendere i principi cristiani contro un mondo brutto e cattivo? 

Creare l’ennesimo percorso o podcast?

Offrire la milionesima proposta di commento al vangelo?

Che cos’è evangelizzare?

Il Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici (ma noi preferiamo decisamente la prima definizione) ci offre un’occasione preziosa per ripensare al significato della missione digitale perché non bastano le buone intenzioni per evangelizzare!

Forse davvero dovremmo liberarci dall’idea un po’ clericale che evangelizzare sia solo “spiegare cose”, la parola ha senz’altro un potere molto forte, ma evangelizzare, in fondo, è manifestare una vita nuova, rivelare nei gesti e nelle relazioni un incontro che ci ha cambiato la vita, quello con Cristo vivo e operante nella nostra vita. Come ricorda Papa Francesco: «Il missionario non porta sé stesso, ma Gesù, e mediante Lui l’amore del Padre!»

Infine, se ci si definisce “missionari”, ci fa bene ricordare che il missionario sempre risponde a una chiamata. Tanti sentono di voler dare il loro contributo sui social, ma occorrerebbe verificare (nella Chiesa, col proprio padre spirituale) se questo sentire è davvero una chiamata e non unicamente un’auto-chiamata.

Cinema & teologia del corpo: Diamanti

Riprendiamo una rubrica che avevamo iniziato molto tempo fa e che ha lo scopo di rileggere alcuni “prodotti” culturali attuali attraverso le lenti della teologia del corpo. (qui trovate la rubrica dedicata)

Il film Diamanti di Ozpetek, a quanto pare, è stato il film italiano più visto del 2024 e questo ci sembra un buon motivo per spendere due parole non tanto da critici d’arte cinematografica (ovviamente non lo siamo) ma appunto per fare qualche riflessione alla luce della teologia del corpo a proposito del tema che emerge dal film.

Una delle caratteristiche peculiari della pellicola è il fatto che il regista abbia diretto un cast di 18 attrici e che le figure maschili presenti abbiano ruoli per lo più marginali o negativi, proponendosi così come un film che ha come protagonista il femminile.

La trama, infatti, si snoda nella Roma degli anni ’70, all’interno di una sartoria di alto livello che confeziona abiti di scena per il cinema e per il teatro, e che ha il vanto di lavorare con premi Oscar e famose personalità dello spettacolo. La sartoria Canova, così si chiama, è gestita da due sorelle, Alberta e Gabriella, che hanno alle loro dipendenze un nutrito gruppo di donne delle quali il film ci offre alcuni scorci della loro vita privata.

Ciò che emerge nel complesso è per molti aspetti un ribaltamento del mondo a cui siamo abituati: il sesso forte infatti è il femminile e non il maschile e ciò si riflette in tutta una serie di situazioni che vediamo “capovolte” rispetto a ciò che è stato (e per certi versi è ancora) il rapporto tra i sessi nel nostro contesto socio-culturale.

Ad esempio, in questa azienda di famiglia sono tutte donne tranne il segretario, che viene “comandato” a bacchetta da Alberta; il segretario è anche amante di una dipendente molto più anziana di lui; la “poligamia” è al femminile, vissuta da un’altra dipendente che ha una relazione con due uomini contemporaneamente; i maschi giovani e aitanti che compaiono nell’ambiente di lavoro come facchini o poco più, sono oggetto di battute a doppio senso e anche di un certo scherno che li riduce a oggetti sessuali; e infine viene commesso un “maschicidio”.

Questo ribaltamento ottiene il suo effetto perché fa riflettere, ma rischia di sembrare solo una rivendicazione da parte femminile, di un ruolo dominante che, alla fine, ricade negli stessi errori commessi dal patriarcato e dal maschio-centrismo della nostra società: prevaricazioni e ingiustizie, questa volta prevalentemente dal femminile al maschile.

Può esserci invece un altro modo?

Giovanni Paolo II afferma che nel Disegno di Dio l’essere umano è creato come maschio e femmina per vivere in comunione, ma dopo il peccato la differenza sessuale è divenuta un problema e l’essere umano si concepisce soltanto come maschio o femmina.

In questa differenza di lettera – la “e” sostituita dalla “o” – c’è un cambiamento radicale: significa che, se prima della ferita del peccato, uomo e donna erano consapevoli del dono che erano uno per l’altra, della loro pari dignità e del fatto che la loro differenza fosse per la comunione, dopo il peccato tutto ciò cambia profondamente. Appare infatti il dominio reciproco: la relazione uomo-donna cioè appare perturbata dal sospetto, dalla minaccia di appropriazione, e la differenza è vissuta come competizione e come ostacolo all’alleanza.

Giovanni Paolo II ci dice, cioè, che il patriarcato e il maschilismo (così come anche il femminismo e le sue derive) non sono solo un problema socio-culturale, ma sono innanzitutto effetti della ferita che porta il cuore umano che, se lasciato a se stesso, non è in grado di amare né di recuperare e vivere in pienezza la relazione uomo-donna, a qualsiasi livello, sia di coppia che nella società.

Ecco allora che abbiamo tutti bisogno di redenzione, cioè di lasciar trasformare il nostro cuore da Cristo perché accada in maniera autentica e profonda ciò che succede alla fine del film, ovvero che tutti i conflitti trovano una riconciliazione: le sorelle Canova riescono a condividere i propri dolori e questo permette loro di ritrovarsi e fare di nuovo squadra, la rivalità tra due attrici si risolve in una ammirazione e stima reciproca, il rapporto tra le titolari della sartoria e le dipendenti diventa sorellanza e collaborazione tanto da creare in poco tempo un abito meraviglioso per un film che sarà girato il giorno successivo.

Infine, anche il rapporto uomo – donna, che cogliamo nei personaggi della costumista e del regista, che nel corso del film hanno una furiosa litigata proprio sull’abito sopracitato, trova pace nel momento in cui Stefano Accorsi, che interpreta il regista, si rivolge a Bianca Vega, la costumista premio Oscar, senza arroganza, prepotenza o competizione, ma chiedendole con garbo e sincero interesse, la sua preziosa collaborazione.

Ecco come dovrebbe essere il rapporto uomo-donna: un rapporto di stima reciproca dove la differenza dell’altro è vissuta come arricchimento e non come occasione di prevaricazione o di competizione. Solo accogliendo il dono costituito dal contributo insostituibile dell’altro sesso, quel “film” che è la nostra vita e che è la nostra società, potrà trasformarsi in un autentico capolavoro.