Qual è la MISSIONE della tua coppia?

Recentemente un’amica ci ha chiesto se esistono corsi per scoprire la propria missione di coppia.

La sua domanda non ci ha stupito perché da diverso tempo circola, soprattutto sui social (ma non solo), la tesi secondo cui ciascuna coppia di sposi ha una specifica missione da scoprire. E non mancano coppie che, sulla base di questa tesi, si danno da fare, prodigandosi in progetti di vario genere.

C’è senz’altro in questa inquietudine qualcosa di positivo e vero, ma allo stesso tempo cogliamo anche una certa confusione. Proviamo allora di condividere alcune luci ricevute nel nostro cammino di sposi che ci hanno orientato su questo tema.  

Partiamo facendoci qualche domanda: Esiste una missione degli sposi cristiani? E se esiste, si tratta di una missione generica o di una missione specifica per ogni coppia?

Questi interrogativi si collocano ovviamente nel più ampio contesto dell’approfondimento sacramentale del matrimonio cristiano che ha avuto inizio in modo significativo solo nel secolo scorso, dopo il Concilio Vaticano II ed in particolare col pontificato di San Giovanni Paolo II.

A questo proposito, come coppia, abbiamo avuto la fortuna di camminare fin da giovani sposini vicino a don Renzo Bonetti, un sacerdote a cui vogliamo molto bene, che ha speso gran parte del suo ministero proprio sul tema del sacramento del matrimonio. Più volte lo abbiamo sentito “pungolare” le coppie sul fatto che il sacramento del matrimonio non è un fatto privato, ma è un dono per edificare la Chiesa e ricordiamo ancora certe sue frasi ad effetto: “il matrimonio non è solo per voi, ma per la Chiesa”; “gli sposi sono Eucaristia per il mondo!”; “attraverso gli Sposi Cristo vuole raggiungere l’umanità!”, tanto per citarne alcune.

Non si tratta chiaramente di una sua invenzione, il Catechismo stesso ricorda che il matrimonio, come l’ordine, è un sacramento a servizio della comunione e racchiude una chiamata all’edificazione del Popolo di Dio.  (cf. CCC, 1534). Quindi sì, è fuori dubbio, esiste una missione degli sposi inscritta nel sacramento! Ma di cosa si tratta?  

Prima di rispondere a questa domanda riflettiamo un attimo sulla parola “missione”.

Si tratta di qualcosa che riposa più o meno velatamente in ogni cuore umano: ciascuno di noi sente infatti di non essere nato per caso, ed avverte il desiderio di essere chiamato in qualche modo a lasciare il segno su questa terra!  Ma, oltre a ciò, non possiamo non tenere presente alcuni elementi che condizionano il nostro immaginario. Innanzitutto, noi che siamo cresciuti con i film di Mission: Impossible, colleghiamo facilmente la missione ad imprese di carattere eroico nonché ad un’attesa di successo, di riconoscimento e stima da parte altrui. In ambito cattolico poi, oltre ad essere associato all’evangelizzazione (si pensi alle missioni), il termine “missione” è quasi sempre collegato alla proposta di attività pastorali.

Vale la pena tenere presente tutto questo perché non di rado ci è capitato di cogliere come certi stimoli sul matrimonio come sacramento per il servizio agli altri, generino purtroppo dei fraintendimenti.

Ne vogliamo sottolineare in particolare tre, che, non solo portano fuori mira, ma rischiano addirittura di logorare la coppia stessa. Tutti hanno un comune denominatore: l’idea che la missione sia “fare qualcosa” o, meglio, fare qualcosa per Dio, un po’ come i Blues Brothers

1) Il primo fraintendimento lo definiremmo “clericale” e riguarda il confronto con il sacramento dell’Ordine. Ci spieghiamo: per tanto tempo il sacramento del matrimonio è stato trattato un po’ come qualcosa di “serie B” rispetto alla vocazione al celibato per il Regno, per cui per tanti sposi quanto scrive il Catechismo suona quasi come una rivendicazione del proprio valore e del proprio spazio, così spesso sminuito o strumentalizzato dai presbiteri. Ma al di là del senso di rivalsa, che già di per sé non è “secondo Dio”, il problema qui è che gli sposi rischiano di intendere la loro missione in termini “clericali”, quindi rivendicando spazi, ruoli e responsabilità e finendo per scimmiottare un modello che non gli è proprio. Ciò porta a considerare come più nobile tutto ciò che è “pastorale” in senso stretto: corsi, testimonianze, incontri, evangelizzazione, momenti di preghiera, rispetto a ciò che riguarda la vita ordinaria.

Ma cosa è più grande? Cambiare un pannolino o guidare un’adorazione? Uscire a mangiare un gelato con la propria famiglia o parlare ad un gruppo fidanzati? Invitare a cena i propri vicini o registrare un podcast? 

2) Il secondo fraintendimento si collega al primo ed intercetta invece il nostro bisogno di affermazione e riconoscimento. Ovvero il rischio di idealizzare la missione come un’impresa straordinaria ed esaltante che di successo in successo ci realizzerà personalmente e come coppia. Qualcosa che ci porterà ad essere riconosciuti, ad essere “qualcuno”, a sentirci dire: bello, bravi, grazie…

Ma è proprio questo il fine della missione iscritta nel sacramento del matrimonio? Un trionfo che non prevede la Pasqua?

3) Il terzo grande fraintendimento riguarda invece la deriva volontarista: “dobbiamo darci da fare!”. Certi stimoli sulla missione degli sposi, anche in buona fede, gettano addosso alle coppie un’aspettativa, un’ideale da raggiungere e un conseguente slancio sul “fare”. Rischia di consolidarsi così l’idea che la missione sia qualcosa che dobbiamo produrre noi con i nostri sforzi e il nostro impegno.

Ma una coppia di sposi è forse un “team” che produce cose?

Ora possiamo dirlo chiaramente, il punto è che non è facendo cose che si compie la propria missione di sposi.  

Anzi, tutto questo slancio sul “fare cose” porta con sé rischi molto seri: innanzitutto crea un ottimo alibi per non prendere in mano le concrete difficoltà che maturano via via nella coppia e trascurare la propria chiamata di sposa/o e madre/padre. Inoltre, tutto ciò rischia inesorabilmente di creare coppie che vengono considerate di serie A perché “fanno” e altre che vengono considerate di serie B perché “non fanno”! Tutto questo poi finisce per generare ansia da prestazione o la sensazione che il proprio valore dipenda da quanto si fa e da quanto riconoscimento ottiene ciò si è fatto.

Crediamo che questi fraintendimenti risiedano proprio nel come si intende il sacramento del matrimonio.

Ora, sappiamo che un tema come questo richiederebbe una trattazione ben più ampia ed articolata, ma ci accontentiamo di alcuni piccoli spunti utili alla nostra riflessione.

Iniziamo ricordando che i sacramenti sono i canali di Grazia attraverso cui Cristo continua la sua opera di salvezza ed in particolare nel sacramento del matrimonio l’effusione di grazia avviene proprio sull’amore uomo-donna, sulla relazione tra sposo e sposa. È questa relazione a costituire il segno sacramentale del matrimonio. È questa relazione ad essere abitata dal mistero della Pasqua di Cristo. La vita di due sposi allora è un sacramento costantemente in atto, o almeno sarebbe chiamata ad esserlo.

La prima chiamata (o missione) di due sposi, quindi, è accogliere e prendere sul serio il mistero della presenza di Cristo salvatore nella loro relazione. Non a caso Papa Francesco diceva che il sacramento è innanzitutto un dono per la salvezza e la santificazione degli sposi (cf. AL, 72). 

Spesso finiamo per considerare l’amore matrimoniale come uno sforzo o un dovere, oppure come una meta da raggiungere, ma il sacramento ci ricorda invece che l’Amore, quello con la “A” maiuscola, è un dono che ci è stato fatto gratuitamente e che siamo chiamati ad accogliere per poterci amare.

È interessante anche notare che nei vari pronunciamenti del magistero quando si parla della “missione degli sposi” non c’è nessuna indicazione sul “fare cose”, ma piuttosto accorati inviti ad accogliere e manifestare l’Amore di cui sono divenuti partecipi. Ecco alcuni esempi:

«gli sposi, “in forza del Sacramento, vengono investiti di una vera e propria missione, perché possano rendere visibile, a partire dalle cose semplici, ordinarie, l’amore con cui Cristo ama la sua Chiesa, continuando a donare la vita per lei». (AL, 121)

«La missione forse più grande di un uomo e una donna nell’amore è questa: rendersi a vicenda più uomo e più donna» (AL, 221)

«la famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l’amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione dell’amore di Dio per l’umanità e dell’amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa». (FC, 17)

L’invito è chiaro: il protagonista della missione degli sposi non è la coppia, ma è Dio stesso che chiede di essere accolto e manifestato nelle cose semplici e ordinarie della vita. Quelle cose quotidiane che in fondo, a ben vedere, se abitate dall’amore, non sono meno straordinarie di quelle “straordinarie”.

La missione degli sposi è una sola! La missione non è fare, ma lasciarsi fare! Lasciarsi fare da Dio! Lasciarsi rigenerare dall’Amore, rimanere nell’Amore! Lasciarsi guidare da Lui sulla strada che ha pensato per noi, che la maggior parte delle volte è ben diversa da quella che fantastichiamo o che avremmo scelto.

E questa strada ha origine solo nell’Amore custodito e accolto tra gli sposi, perché è solo lì che si genera la Vita! E allora sarà la Vita, la Vita di Dio, a manifestarsi e a dilatarsi a modo suo oltre i confini famigliari per edificare la Chiesa!

L’amore vero, infatti, e il cammino spirituale non conducono mai alla chiusura intimistica, sempre allargano il numero delle persone coinvolte, sempre si dilatano ed insieme generano responsabilità per il bene dell’altro.

L’amore vero non conduce mai verso “due cuori e una capanna”, ma ha sempre come orizzonte la “famiglia grande!”, la Chiesa, nei mille modi che lo Spirito cuce su misura per ciascuna coppia. In fin dei conti, infatti, questo cammino ha senso e si compie nella misura in cui ci rende sempre più uomo e donna, sempre più sposi, e in virtù della nostra unione tra noi e con Dio, ci rende sempre più padre e madre (in un senso molto più ampio della vita biologica).

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Missionari digitali o aspiranti influencer? 3 bucce di banana da evitare

Recentemente un amico, che stimiamo per la sua profondità di pensiero, avendo saputo che ci sarà il giubileo degli influencer cattolici (o meglio, dei missionari digitali), ci ha detto qualcosa che ci ha fatto molto pensare:

«Spesso, l’impressione che ho guardando certi influencer cattolici è che più che rispondere a un bisogno della Chiesa stiano piuttosto rispondendo ad un loro personale bisogno. E questo bisogno personale tante volte porta fuori mira rispetto al reale bisogno della Chiesa».

Sono parole forti, forse un po’ giudicanti, ma che senz’altro contengono del vero e da questo stimolo è nata una interessante chiacchierata/riflessione sugli “approcci missionari” da social network di cui desideriamo condividervi qualche tratto saliente e che in un certo modo può essere il proseguo dell’articolo scritto qualche tempo fa su questi temi: Nei social, ma non dei social

A noi per primi sono state utili queste riflessioni non tanto perché ci sentiamo missionari digitali, tutt’altro, ma perché essendo comunque presenti sui social, ci hanno aiutato a metterci in discussione.

Allora, quale potrebbe essere il “personale bisogno” che muove tanti a farsi spazio per evangelizzare sui social, ma che rischia di portare fuori mira?

Non vogliamo fare processi alle intenzioni, anche perché occorre tenere conto che questo è un terreno complesso, dove le cose non sono mai bianche o nere, ed anche i bisogni più distorti (spesso inconsapevoli) si mescolano sempre a nobili desideri e propositi di bene, quindi occorre grande prudenza.

Abbiamo però individuato tre “bucce di banana” che nonostante le più buone intenzioni, fanno drammaticamente scivolare fuori strada, lontano dal vero obiettivo che è evangelizzare.

1)  Il bisogno di stima e riconoscimento.

Ciascuno di noi naturalmente ha bisogno di conferme, di qualcuno che gli rimandi una certa stima e considerazione. Questo ovviamente a diversi livelli a seconda delle persone e del periodo della vita: il giovane che sta costruendo la sua personalità ne ha molto bisogno, l’adulto che dovrebbe già aver consolidato una buona autostima e fiducia in se stesso, meno. Eppure, questa naturale inclinazione, nell’ambiente social rischia di degenerare.

Non di rado, infatti, dietro una certa smania di evangelizzare riposa un inappagato bisogno di conferme, di essere visti e stimati, di sentirsi qualcuno; l’idea inconsapevole per cui l’ottenere visibilità e ascolti coincida con la conferma del proprio valore.

Una spia che ci può allertare su questo fronte è quando l’essere considerati e apprezzati crea in noi una certa ebrezza, un senso di euforia e gratificazione, una smania che spinge a produrre contenuti e iniziative (spesso non richiesti) per restare sotto i riflettori. Viceversa, un senso di abbattimento e tristezza se non riceviamo le attenzioni sperate.

Ecco allora che senza rendercene conto avviene una specie di corto circuito: con il nobile intento di evangelizzare succede che mi ritrovo a nutrire il mio ego!

E il contenuto, proprio perché espressione del mio ego, diventa più importante delle persone a cui si rivolge! Ma soprattutto porta fuori mira rispetto al proposito di evangelizzare perché più che a Dio porta… all’io!

2) La smania di sentirsi abilitati a parlare di tutto

La tuttologia, che il vocabolario della lingua italiana definisce “la boriosa presunzione di saper tutto”, è una tentazione che affligge spesso anche i meglio intenzionati.

Nessuno, lo sappiamo, si sente presuntuoso di default, ma quando ci anima una certa frenesia di dire e di proporre, o ci sentiamo dalla parte dei buoni che devono difendere il buon nome della morale cattolica, ecco che senza accorgercene rischiamo di avventurarci con leggerezza e superficialità in ambiti delicati o mai veramente approfonditi.

Capita infatti che stimolati dai follower o da qualche commento caustico, o per produrre contenuti, si finisca per interpretare la Bibbia “secondo me”, per citare “San ChatGPT”, o per snocciolare a sproposito frasi fatte e slogan ascoltati, ma mai approfonditi o messi alla prova della vita.

E dobbiamo confessare che specie sul terreno della sessualità, e della teologia del corpo, ahinoi a volte ci siamo imbattuti in approcci di questo tipo! Come diceva Macario l’egiziano (monaco del IV secolo discepolo di Sant’Antonio abate) è come ascoltare qualcuno che ti parla della dolcezza del miele, ma si capisce lontano un kilometro che non l’ha mai assaggiato!

Anche così non si fa un buon servizio al Vangelo: il rischio di questo approccio è quello di dare messaggi parziali o addirittura distorti che finiscono per mancare significativamente il bersaglio e del vero bene delle persone a cui ci si rivolge, che passa sempre da una certa prudenza e dalla relazione con il caso singolo.

Occorre invocare il dono della prudenza, non basta essere in buona fede per annunciare una fede buona! Il fatto di fare qualcosa di “ufficialmente” nobile, non mi autorizza a parlare di tutto.

3) Sentirsi i paladini che difendono la fede

Spesso quando ci si sente così, capita che si creda di evangelizzare spiegando alle persone come si devono comportare e perché.
Questo atteggiamento, che potremmo riassumere nella parola “moralismo”, crea inesorabilmente divisioni e chiusure: sentirsi giudicati e trattati con superiorità spegne ogni apertura al dialogo e all’incontro.

Ecco allora servito il paradosso del moralismo: invece di costruire ponti, si alimentano sterili polemiche e dibattiti; invece di seminare bellezza e gioia, si diffondono giudizi e sentenze da veri boomer.

Papa Francesco, nell’Evangeli Gaudium (un testo che dovrebbe essere il vademecum di chiunque abbia il desiderio di evangelizzare), ricorda che l’annuncio cristiano non dovrebbe essere ossessionato dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine, ma dovrebbe concentrarsi sull’essenziale: ciò che è più bello, più grande, più attraente e più necessario. (cf. EG, 35)

Anche in questo terzo caso si cade lontano dall’obiettivo: il moralismo fa male agli altri, ma fa male anche a me perché mi fa sentire dalla parte dei buoni, dei giusti, di quelli che “hanno capito” e mi allontana dagli altri e dal riconoscere il mio bisogno di misericordia.

Ma allora che cos’è fare missione sui social?

Spiegare cosa è giusto e cosa è sbagliato?

Esibire i capi di abbigliamento “must have” per un autentico guardaroba cattolico?

Difendere i principi cristiani contro un mondo brutto e cattivo? 

Creare l’ennesimo percorso o podcast?

Offrire la milionesima proposta di commento al vangelo?

Che cos’è evangelizzare?

Il Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici (ma noi preferiamo decisamente la prima definizione) ci offre un’occasione preziosa per ripensare al significato della missione digitale perché non bastano le buone intenzioni per evangelizzare!

Forse davvero dovremmo liberarci dall’idea un po’ clericale che evangelizzare sia solo “spiegare cose”, la parola ha senz’altro un potere molto forte, ma evangelizzare, in fondo, è manifestare una vita nuova, rivelare nei gesti e nelle relazioni un incontro che ci ha cambiato la vita, quello con Cristo vivo e operante nella nostra vita. Come ricorda Papa Francesco: «Il missionario non porta sé stesso, ma Gesù, e mediante Lui l’amore del Padre!»

Infine, se ci si definisce “missionari”, ci fa bene ricordare che il missionario sempre risponde a una chiamata. Tanti sentono di voler dare il loro contributo sui social, ma occorrerebbe verificare (nella Chiesa, col proprio padre spirituale) se questo sentire è davvero una chiamata e non unicamente un’auto-chiamata.

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