Durante una lezione alla facoltà teologica che ho frequentato, un professore, all’interno di una più ampia riflessione sulla necessità di nuovi modi di comunicare la fede, disse provocatoriamente: «oggi la categoria di peccato originale è superata! Non ha più senso parlare di peccato originale alle persone di oggi, nessuno ci capisce più».
In questa provocazione certamente c’era del vero: «nessuno ci capisce più!» Il peccato originale con i suoi effetti è ormai tra i grandi sconosciuti per i cristiani di oggi, eppure costituisce la grande ferita di ogni cuore umano
A ben vedere, già sul peccato personale in senso stretto, non siamo messi molto bene.
Tendenzialmente, infatti, la stragrande maggioranza di noi cresce con l’idea che il peccato sia un’azione, un comportamento sbagliato che viola la legge di Dio. Questa lettura è diffusissima nella formazione catechistica dei bambini, ma amici sacerdoti ci confermano che, dalle confessioni, traspare come questa resti l’idea di fondo anche per molti adulti. Proprio questa lettura del peccato personale conferma che abbiamo le idee molto confuse su che cos’è il peccato originale e che non abbiamo viva esperienza della redenzione di Cristo.
La questione è seria e il professore di cui sopra ci perdonerà se, invece, tentiamo di dire qualcosa su come la ferita del peccato originale riguarda la nostra vita e sul perché, senza accogliere questa realtà, di fatto non possiamo comprendere pienamente noi stessi, né aprirci alla redenzione di Cristo.
Non entriamo qui nel ginepraio relativo alla genesi del peccato originale e a come si sia propagato nella storia dai progenitori fino a noi, anche perché occorrerebbe una lunga e approfondita esegesi del testo biblico. Ci basti sapere che il testo di Genesi 3 in cui tutto ciò viene narrato, è un testo che non vuole raccontare la cronaca dettagliata dei fatti avvenuti all’inizio della storia umana, ma è un racconto di carattere sapienziale che ha lo scopo di riflettere, attraverso un linguaggio mitologico, sull’origine del male e della morte che tocca l’umanità.
La tradizione cristiana ci insegna che il peccato originale riguarda la condizione umana. La nostra natura umana è ferita! Piaccia o meno c’è qualcosa di rotto! Ognuno di noi porta in sé una frattura in quattro direzioni: nel rapporto con Dio, nel rapporto con se stesso, nel rapporto con l’altro sesso e nel rapporto con la creazione. Non ci viene spontaneo relazionarci serenamente con Dio, né con noi stessi, né con l’altro sesso, né tantomeno con il mondo.
Nel vangelo Cristo parla di «durezza di cuore»: il cuore che biblicamente è l’organo centrale e unificante della persona, sede della volontà e della coscienza appare come bloccato, incartato su se stesso, incapace di svolgere appieno la sua funzione unificante verso il bene.
Ma dice anche che la durezza di cuore non è la nostra verità: «in Principio non fu così». C’è stata una rottura. L’umanità non era stata creata così, non è stata pensata per ripiegarsi su se stessa, per chiudersi nell’autosufficienza, ma per essere immagine di Dio, per esistere secondo Dio, per gustare ed esprimere l’Amore.
La nostre offuscate reminiscenze catechistiche potrebbero giustamente obiettare: ma il Catechismo non insegna che il Battesimo cancella il peccato originale?
Sì, è vero il Battesimo donandoci la vita nuova di Cristo cancella il peccato originale, ma il Catechismo dice anche che continuiamo a portare in noi le conseguenze del peccato che si manifestano nella nostra natura indebolita (CCC, 405).
Ciò significa che attraverso il sacramento del Battesimo siamo stati riconciliati con Dio e in Cristo ci è stata donata la vita nuova dei figli di Dio, ma non è che magicamente ci trasformiamo in supereroi! In noi viene piantato un germe di vita divina che va custodito e fatto crescere in una continua tensione tra la nostra umanità ferita e fragile e la vita filiale che cresce dentro di noi.
Non possiamo allora non prendere sul serio la realtà di questa ferita che ci portiamo dentro e che la tradizione chiama: “concupiscenza”.
Lo so, è un parolone in disuso che “puzza di sacrestia” lontano un miglio, ma che rivela potentemente questa nostra condizione: il nostro essere come su un piano inclinato che ci porta istintivamente a preoccuparci prima di tutto per noi stessi, per la nostra soddisfazione e autosufficienza.
L’apostolo Giovanni parla di tre forme di concupiscenza (1Gv 2, 16) ognuna delle quali racchiude una marea di sfaccettature diverse.
La concupiscenza degli occhi ovvero il possesso, il prendere per noi stessi; la concupiscenza della carne, ovvero l’usare la sessualità non nel suo significato di dono per la comunione, ma per la nostra autogratificazione; e la superbia della vita, ovvero l’affermare noi stessi e le nostre ragioni sopra ogni cosa.
A volte possono sembrare cose distanti da noi, cose che fatichiamo a riconoscere nella nostra vita ordinaria, eppure, andando in profondità, possiamo scoprire sfumature che ci toccano molto da vicino.
Giovanni Paolo II ad esempio, nelle sue catechesi, riflettendo sulla concupiscenza della carne, ha voluto soffermarsi su due aspetti molto concreti ed attuali. Da un lato, il fatto che la concupiscenza oscura nel cuore umano il significato della differenza sessuale per cui la relazione tra maschio-femmina diviene problematica, non più terreno spontaneo di comunione, ma di conflitto e di dominio. Dall’altro il fatto che la concupiscenza porta con sé la frammentazione interiore dell’essere umano che sperimenta una «quasi costitutiva difficoltà di immedesimazione col proprio corpo» così che, sebbene nasciamo come maschi e femmine, non ci viene spontaneo maturare come uomini e donne.
Questa insomma è la situazione: C’è qualcosa di rotto in noi, siamo feriti! …feriti su più livelli!
Ma non è tutto, perché questa è solo metà della storia!
Infatti, se è vero che siamo feriti, è ancor più vero che siamo salvati, che siamo redenti! In Cristo ci è data la vita e la libertà vera e sempre ci è offerta la possibilità di passare dal peccato alla verità, dalla morte alla vita. Il germe della vita nuova piantato in noi nel Battesimo piano piano cresce e nel farsi spazio va a toccare e a portare alla luce quelle storture che ci portiamo dentro.
E qui sta la cosa più difficile: accogliere quella luce, ammettere a noi stessi che in noi qualcosa non va, che siamo bisognosi, che abbiamo bisogno di conversione.
Lo so per esperienza, da ex-perfezionista incallito quale ero (e in parte sono ancora), so che non è facile ammettere a se stessi che qualcosa non va! C’è sempre una parte presuntuosa di noi che si ribella ed emerge impetuosa la nostra profonda fobia di sentirci sbagliati. Una parte di noi rigetta l’inquietudine, ha pretese di autosufficienza, è affamata di rassicurazioni e conferme per cui non accetta di mettersi in discussione. Ma se le diamo retta ci chiudiamo alla Vita!
Se non accettiamo di essere rotti, se diciamo a noi stessi: «va bene così», «in me non c’è niente che non va», «sono fatto così», «il problema sono gli altri, il problema è la rigidità della Chiesa»… il nostro cuore si chiude nella durezza, si irrigidisce e non lascia spazio di crescita al germe della vita nuova in noi.
Allora non facciamoci fregare dal nostro orgoglio, accettiamo di essere rotti, di essere feriti!
Vale la pena essere feriti perché in quelle ferite Cristo vuole visitarci e portare guarigione. È soprattutto nelle nostre ferite e nelle nostre miserie che possiamo sperimentare la tenerezza di Dio.
È quello che è successo ai Santi. I Santi non sono supereroi, ma persone che hanno lasciato entrare Cristo nelle loro miserie.
La Pasqua che si avvicina ci insegna proprio questo: il Giovedì Santo leggeremo il brano del Vangelo di Giovanni sulla lavanda dei piedi. Cristo è attratto dai nostri piedi sporchi, non si schifa, si china per lavarceli perché ci ama e siamo preziosi ai suoi occhi! Non facciamo l’errore di Pietro, accogliamo i nostri piedi sporchi e accogliamo la tenerezza di Dio che non si stanca di lavarceli e medicarceli.
Lui vuole fare Pasqua con noi, perché nessuno di noi è sbagliato, semplicemente tutti siamo feriti!