Nessuno è sbagliato, ma tutti siamo feriti

Durante una lezione alla facoltà teologica che ho frequentato, un professore, all’interno di una più ampia riflessione sulla necessità di nuovi modi di comunicare la fede, disse provocatoriamente: «oggi la categoria di peccato originale è superata! Non ha più senso parlare di peccato originale alle persone di oggi, nessuno ci capisce più».

In questa provocazione certamente c’era del vero: «nessuno ci capisce più!» Il peccato originale con i suoi effetti è ormai tra i grandi sconosciuti per i cristiani di oggi, eppure costruisce la grande ferita di ogni cuore umano

A ben vedere, già sul peccato personale in senso stretto, non siamo messi molto bene.

Tendenzialmente, infatti, la stragrande maggioranza di noi cresce con l’idea che il peccato sia un’azione, un comportamento sbagliato che viola la legge di Dio. Questa lettura è diffusissima nella formazione catechistica dei bambini, ma amici sacerdoti ci confermano che, dalle confessioni, traspare come questa resti l’idea di fondo anche per molti adulti. Proprio questa lettura del peccato personale conferma che abbiamo le idee molto confuse su che cos’è il peccato originale e che non abbiamo viva esperienza della redenzione di Cristo.

La questione è seria e il professore di cui sopra ci perdonerà se, invece, tentiamo di dire qualcosa su come la ferita del peccato originale riguarda la nostra vita e sul perché, senza accogliere questa realtà, di fatto non possiamo comprendere pienamente noi stessi, né aprirci alla redenzione di Cristo.

Non entriamo qui nel ginepraio relativo alla genesi del peccato originale e a come si sia propagato nella storia dai progenitori fino a noi, anche perché occorrerebbe una lunga e approfondita esegesi del testo biblico. Ci basti sapere che il testo di Genesi 3 in cui tutto ciò viene narrato, è un testo che non vuole raccontare la cronaca dettagliata dei fatti avvenuti all’inizio della storia umana, ma è un racconto di carattere sapienziale che ha lo scopo di riflettere, attraverso un linguaggio mitologico, sull’origine del male e della morte che tocca l’umanità.

La tradizione cristiana ci insegna che il peccato originale riguarda la condizione umana. La nostra natura umana è ferita! Piaccia o meno c’è qualcosa di rotto! Ognuno di noi porta in sé una frattura in quattro direzioni: nel rapporto con Dio, nel rapporto con se stesso, nel rapporto con l’altro sesso e nel rapporto con la creazione. Non ci viene spontaneo relazionarci serenamente con Dio, né con noi stessi, né con l’altro sesso, né tantomeno con il mondo.

Nel vangelo Cristo parla di «durezza di cuore»: il cuore che biblicamente è l’organo centrale e unificante della persona, sede della volontà e della coscienza appare come bloccato, incartato su se stesso, incapace di svolgere appieno la sua funzione unificante verso il bene.

Ma dice anche che la durezza di cuore non è la nostra verità: «in Principio non fu così». C’è stata una rottura. L’umanità non era stata creata così, non è stata pensata per ripiegarsi su se stessa, per chiudersi nell’autosufficienza, ma per essere immagine di Dio, per esistere secondo Dio, per gustare ed esprimere l’Amore.

La nostre offuscate reminiscenze catechistiche potrebbero giustamente obiettare: ma il Catechismo non insegna che il Battesimo cancella il peccato originale?

Sì, è vero il Battesimo donandoci la vita nuova di Cristo cancella il peccato originale, ma il Catechismo dice anche che continuiamo a portare in noi le conseguenze del peccato che si manifestano nella nostra natura indebolita (CCC, 405).

Ciò significa che attraverso il sacramento del Battesimo siamo stati riconciliati con Dio e in Cristo ci è stata donata la vita nuova dei figli di Dio, ma non è che magicamente ci trasformiamo in supereroi! In noi viene piantato un germe di vita divina che va custodito e fatto crescere in una continua tensione tre la nostra umanità ferita e fragile e la vita filiale che cresce dentro di noi.

Non possiamo allora non prendere sul serio la realtà di questa ferita che ci portiamo dentro e che la tradizione chiama: “concupiscenza”.

Lo so, è parolone in disuso che “puzza di sacrestia” lontano un miglio, ma che rivela potentemente questa nostra condizione: il nostro essere come su un piano inclinato che ci porta istintivamente a preoccuparci prima di tutto per noi stessi, per la nostra soddisfazione e autosufficienza.

L’apostolo Giovanni parla di tre forme di concupiscenza (1Gv 2, 16) ognuna delle quali racchiude una marea di sfaccettature diverse.
La concupiscenza degli occhi ovvero il possesso, il prendere per noi stessi; la concupiscenza della carne, ovvero l’usare la sessualità non nel suo significato di dono per la comunione, ma per la nostra autogratificazione; e la superbia della vita, ovvero l’affermare noi stessi e le nostre ragioni sopra ogni cosa.

A volte possono sembrare cose distanti da noi, cose che fatichiamo a riconoscere nella nostra vita ordinaria, eppure, andando in profondità, possiamo scoprire sfumature che ci toccano molto da vicino.

Giovanni Paolo II ad esempio, nelle sue catechesi, riflettendo sulla concupiscenza della carne, ha voluto soffermarsi su due aspetti molto concreti ed attuali. Da un lato, il fatto che la concupiscenza oscura nel cuore umano il significato della differenza sessuale per cui la relazione tra maschio-femmina diviene problematica, non più terreno spontaneo di comunione, ma di conflitto e di dominio. Dall’altro il fatto che la concupiscenza porta con sé la frammentazione interiore dell’essere umano che sperimenta una «quasi costitutiva difficoltà di immedesimazione col proprio corpo» così che, sebbene nasciamo come maschi e femmine, non ci viene spontaneo maturare come uomini e donne.

Questa insomma è la situazione: C’è qualcosa di rotto in noi, siamo feriti! …feriti su più livelli!
Ma non è tutto, perché questa è solo metà della storia!

Infatti, se è vero che siamo feriti, è ancor più vero che siamo salvati, che siamo redenti! In Cristo ci è data la vita e la libertà vera e sempre ci è offerta la possibilità di passare dal peccato alla verità, dalla morte alla vita. Il germe della vita nuova piantato in noi nel Battesimo piano piano cresce e nel farsi spazio va a toccare e a portare alla luce quelle storture che ci portiamo dentro.

E qui sta la cosa più difficile: accogliere quella luce, ammettere a noi stessi che in noi qualcosa non va, che siamo bisognosi, che abbiamo bisogno di conversione.

Lo so per esperienza, da ex-perfezionista incallito quale ero (e in parte sono ancora), so che non è facile ammettere a se stessi che qualcosa non va! C’è sempre una parte presuntuosa di noi che si ribella ed emerge impetuosa la nostra profonda fobia di sentirci sbagliati. Una parte di noi rigetta l’inquietudine, ha pretese di autosufficienza, è affamata di rassicurazioni e conferme per cui non accetta di mettersi in discussione. Ma se le diamo retta ci chiudiamo alla Vita!

Se non accettiamo di essere rotti, se diciamo a noi stessi: «va bene così», «in me non c’è niente che non va», «sono fatto così», «il problema sono gli altri, il problema è la rigidità della Chiesa»… il nostro cuore si chiude nella durezza, si irrigidisce e non lascia spazio di crescita al germe della vita nuova in noi.

Allora non facciamoci fregare dal nostro orgoglio, accettiamo di essere rotti, di essere feriti!

Vale la pena essere feriti perché in quelle ferite Cristo vuole visitarci e portare guarigione. È soprattutto nelle nostre ferite e nelle nostre miserie che possiamo sperimentare la tenerezza di Dio.
È quello che è successo ai Santi. I Santi non sono supereroi, ma persone che hanno lasciato entrare Cristo nelle loro miserie.

La Pasqua che si avvicina ci insegna proprio questo: il Giovedì Santo leggeremo il brano del Vangelo di Giovanni sulla lavanda dei piedi. Cristo è attratto dai nostri piedi sporchi, non si schifa, si china per lavarceli perché ci ama e siamo preziosi ai suoi occhi! Non facciamo l’errore di Pietro, accogliamo i nostri piedi sporchi e accogliamo la tenerezza di Dio che non si stanca di lavarceli e medicarceli.

Lui vuole fare Pasqua con noi, perché nessuno di noi è sbagliato, semplicemente tutti siamo feriti!

Una valigia per due

Alcune settimane fa, nel preparare un incontro in streaming con un gruppo famiglie della nostra diocesi, abbiamo avuto occasione di riprendere in mano Amoris Laetitia.

Rileggendo alcuni passaggi, c’è stata una frase che questa volta ci è risuonata in modo particolare, facendoci ripensare alla nostra esperienza pre e post matrimoniale. Per maggiore chiarezza evito sintesi e riporto interamente il passaggio di papa Francesco:

«Il matrimonio è una vocazione, in quanto è una risposta alla specifica chiamata a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Pertanto, la decisione di sposarsi e di formare una famiglia dev’essere frutto di un discernimento vocazionale.» (AL, 72)

Di fronte a questo testo, anche per il fatto che si stava avvicinando il nostro anniversario, è sorta in noi questa domanda: ma noi, da fidanzati, quanto ne eravamo consapevoli?

Purtroppo la risposta è: molto molto poco!

A dire il vero, che il sacramento del matrimonio fosse una vocazione, lo avevamo sentito dire spesso, sia nella nostra formazione giovanile sia nel nostro fidanzamento.

Ma di fatto l’idea che ci avevano trasmesso era quella che la vocazione fosse, in fondo, l’alternativa tra due strade. Ovvero si trattasse di un orientamento personale o verso il matrimonio o verso la vita consacrata… Detta un po’ brutalmente, l’idea era: hai una ragazza, le vuoi bene e non hai mai sentito attrazione per la vita consacrata? Ok, allora la tua vocazione è il matrimonio.

Per cui, capita la direzione da prendere, subentravano tutti i percorsi per vivere bene il fidanzamento e prepararsi al matrimonio, percorsi che però, almeno nella nostra esperienza, hanno sempre avuto un’impronta di tipo morale-psicologico. I temi che andavano per la maggiore erano gli strumenti per crescere nella relazione: come impostare bene il dialogo di coppia, come fare posto a Dio con la preghiera, come vincere i nuclei di morte che possono insinuarsi nella coppia, come affrontare l’arrivo dei figli, come inserirsi nel proprio ambiente parrocchiale e famigliare, ecc…

Per carità, cose importanti, nessuno però ci aveva mai detto che la vocazione al Sacramento del Matrimonio è la risposta ad una chiamata di Cristo a vivere il nostro amore di coppia come segno imperfetto del suo amore per l’umanità.

L’amore, si sa, è un tema sempre controverso, alcuni amici non a caso lo definiscono “ingannevole”. Per quanto riguarda il Sacramento del matrimonio però, come attesta il passaggio di Amoris Laetitia da cui siamo partiti, non si parla genericamente di “volersi bene”, ma di un amore con un’impronta precisa: l’amore di Cristo per la Chiesa.

Come Cristo ha amato la Chiesa? Dando la sua vita per lei! È stato disposto a morire perché lei potesse vivere una vita nuova e più piena.

È quindi un amore capace di dire all’altro: «ho scelto te, al posto di me».

Probabilmente da fidanzato prossimo alle nozze o da novello sposo, se qualcuno mi avesse chiesto “Sei disposto a dare la tua vita per Giulia?”, immaginando appassionate gesta eroiche, avrei risposto senza pensarci due volte: «Certo! La amo, se dovesse capitare un pericolo, sarei disposto a morire per salvarla!»

Ma restava comunque un’ipotesi estremamente remota e, in fondo, il mio immaginario della vita matrimoniale era allora quello di un viaggio romantico ed appassionante, in cui tutto sarebbe stato bello ed entusiasmante. 

Ben presto però mi sono accorto di come la realtà smaschera le aspettative: ad un certo punto, l’impressione era quella di risvegliarmi accanto ad una specie di estranea, diversa dalla fidanzata tenera e amabile a cui il giorno delle nozze avevo detto «Io accolgo te …». Certo, era sempre lei, ma accanto alle cose belle, emergevano anche aspetti sconosciuti, fragilità e limiti tutt’altro che semplici da accogliere. E lo stesso chiaramente era vissuto da lei nei miei riguardi.

All’altare le avevo detto «Io accolgo te…» , ma in fondo, dentro di me, l’idea era: «Io accolgo te purché tu sia sempre carina, amorevole, dolce e comprensiva…»

Lentamente, ho compreso che questo “dare la vita” non passava attraverso eclatanti gesta eroiche, ma attraverso un accettare di morire quotidianamente. Cosa facile a dirsi, ma profondamente lacerante quando sei attaccato alle tue ragioni e ai tuoi modi di vedere le cose e l’altro esce deliberatamente dai tuoi schemi e non li accetta semplicemente perché è diverso da te.

Ricordo che durante un corso per fidanzati ci avevano detto che la relazione matrimoniale è paragonabile ad un viaggio nel quale di due valigie (quelle di ciascuno) occorre farne una sola insieme.

È evidente che in una valigia sola non può entrarci tutto e occorre fare delle rinunce. In me la cosa era abbastanza chiara: c’erano delle rinunce da fare, bisognava trovare un buon accordo, ma il viaggio valeva la pena.

Ciò che non immaginavo era che lungo il cammino, a volte, il bagaglio pesa, e per proseguire occorre lasciare indietro qualcosa… non immaginavo nemmeno che, a mano a mano che si fanno nuove esperienze insieme, occorre fare nuovo spazio ed imparare a fare a meno di qualcos’altro per non perdersi le cose belle. E soprattutto, mai avrei immaginato che anche certe cose spiacevoli che ti ritrovi senza volerlo nella valigia possono rivelarsi occasioni di vita.

Quando ci siamo sposati, proprio non lo immaginavo, ma davvero la chiamata alla vita matrimoniale è una chiamata ad un amore pasquale in cui uomo e donna sono disposti a donarsi reciprocamente la vita. 

Dopo undici anni di matrimonio posso dire che ne vale la pena, perché ad ogni morte per amore è seguita sempre una risurrezione, ad ogni rinuncia è seguito sempre un dono più grande, ad ogni spossessamento, una maggiore libertà, ed oggi quando ci guardiamo negli occhi la gioia è più grande di undici anni fa.

Tornando alla vocazione al matrimonio, siamo sempre più convinti che il Signore, se chiama a vivere un amore come il suo, non lo fa per masochismo, ma perché vuole dilatare il nostro piccolo amore e renderlo capace di cose sempre più grandi. Non a caso nel Sacramento del matrimonio viene effuso sugli sposi lo Spirito Santo che, se accolto, dona la grazia di amare come Cristo ha amato, nel dono sincero di sé.

Crediamo e speriamo che ci sia ancora tanto da camminare e da trafficare con quella benedetta valigia, ma abbiamo toccato con mano che non siamo soli. Lo Sposo è qui e la porta con noi.

E se fossimo tutte “famiglie ferite”?

Veglia di preghiera per le famiglie ferite, percorso diocesano per le famiglie ferite, progetto pastorale per le famiglie ferite. Ultimamente sentiamo questa espressione “famiglie ferite” sempre più di frequente e ogni volta ci verrebbe da alzare la mano dicendo “Eccoci, presenti!”. E invece il nostro alzare la mano sarebbe fuori luogo, perché è un’espressione di solito utilizzata negli ambienti diocesani ed ecclesiali in genere, per indicare le famiglie e le coppie “irregolari”, quelle divorziate e quelle divorziate risposate, per intenderci.

Ma davvero solo perché non apparteniamo a queste due categorie, noi, “gli altri” che siamo regolarmente sposati, possiamo NON dirci “famiglia ferita”?

Certo, la ferita a cui ha fatto riferimento il papa la prima volta che ha usato  questa espressione indicava una realtà precisa, ovvero quando la ferita riguarda il sacramento del matrimonio, cioè tutte quelle persone che hanno visto in qualche modo fallire il loro progetto di vita di coppia e ne portano il peso, compreso il fatto di percepire una certa diffidenza e il sentirsi non completamente accolte all’interno della stessa comunità cristiana.

E quindi, proprio noi che alle volte facciamo sentire queste persone escluse e differenti, possiamo non dirci “famiglia ferita”?

Chi di noi non ha ferite nella propria storia di coppia e nella propria storia personale (che quindi evidentemente diventano ferite di coppia pure quelle)?

Chi porta la ferita di un conflitto con la famiglia di origine, chi porta la ferita della sterilità, chi quella di un figlio con handicap, chi quella di un figlio morto prematuramente, chi porta una ferita nella propria sessualità, chi, ancora, quella di un abbandono, e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

Ci sono ferite più evidenti, che saltano più all’occhio, e ferite meno evidenti, che conoscono solo i diretti interessati, perché troppo intime, troppo dolorose anche solo da nominare.

Ci sono ferite di cui siamo consapevoli e ferite di cui non siamo consapevoli, ma di cui ugualmente portiamo il peso attraverso le nostre rigidità, le nostre false sicurezze, le nostre chiusure, le nostre difese ben serrate.

Ci sono ferite più invadenti e ferite meno invadenti, croci più pesanti da portare e croci meno pesanti, ma tutti, ripeto, tutti, siamo famiglie ferite.

Ah, e non dimentichiamoci del Sacramento del matrimonio. Solo perché il nostro pare “funzionare” pensiamo di essere sempre un’immagine impeccabile del Sacramento che abbiamo celebrato? Siamo realmente un’icona credibile dell’amore di Dio per l’umanità? Noi no, anzi.

Quanto meno perché tutti abbiamo in noi il segno di una ferita, la ferita per eccellenza, quella del peccato originale. Sì, il Battesimo ci ha fatto creatura nuova in Cristo, ma in noi resta l’inclinazione al peccato, come se fossimo su di un piano inclinato che ci porta a “peccare”, cioè fondamentalmente ad avere paura per noi stessi, spingendoci quindi a preservare e ad affermare noi stessi a scapito dell’altro. Tutti portiamo il segno di questa ferita, che ci porta a guardare con sospetto la relazione con l’altro, a temere che l’altro possa privarci di qualcosa, che possa ferirci, approfittarsi di noi, oppure che non sia interessato a noi, o ancora che ci voglia ingannare, manipolare, ecc… anche questo elenco potrebbe essere molto lungo, e la parola “altro” è da intendersi sia con la a minuscola che con la A maiuscola. Sono due facce della stessa medaglia, e se non fosse abbastanza chiaro, le ferite che porti verso l’altro (i fratelli) e verso l’Altro (Dio) sono esattamente le stesse.

Un amico mi raccontava che durante gli esercizi spirituali ignaziani ha riconosciuto in lui un pensiero ricorrente del nemico che era “A Dio tu non interessi, ha di meglio da fare, non ha tempo da perdere con te”. Mesi dopo, ha riconosciuto questo stesso pensiero verso suo padre, ricontattando il sé bambino, ripensando al fatto che il padre non è mai andato alle sue partite di basket perché, evidentemente, aveva di meglio da fare. Questo era, nella sua storia, uno degli effetti del peccato originale, che aveva intaccato l’immagine di Dio ma anche, in parte, il suo modo di relazionarsi, tendendo a rendersi sempre brillante e interessante, appunto, per il timore che le altre persone si voltassero dall’altra parte, pensa un po’.

Che ci piaccia o no questa è la nostra situazione, e ognuno porta dentro di sé una versione particolare di “contro-parola” – direbbe don Fabio Rosini – o effetto del peccato originale nella propria storia, con cui, se sarà fortunato, potrà fare i conti. La cosa peggiore che possa capitare infatti, credo sia non accorgersene e restare fermi alla superficie finendo per collocarsi sul versante di quelli non feriti, dei bravi, di quelli che hanno fatto tutte le cose a modo, o peggio, che credono di aver meritato ciò che di buono hanno nella vita a suon di buone azioni e sforzi di volontà.

Essere cristiani non significa essere bravi e perfetti, il cristiano non è uno indenne, uno che non si è mai ferito, ma uno le cui ferite sono diventate luogo di salvezza.

Il cristiano è qualcuno che ha sperimentato come il Signore si sia rivelato e lo abbia visitato proprio attraverso le ferite della sua storia, ed è testimone del fatto che queste stesse ferite sono diventate feritoie di grazia per la propria vita.

Solo così, da questa prospettiva, possiamo incontrare veramente gli altri con tutto il bagaglio di sofferenza che portano, da “famiglia ferita” a “famiglia ferita”: la Chiesa allora sarà realmente quell’ospedale da campo di cui più volte ha parlato Papa Francesco.

Di questo ci parla il Natale, di un Dio che non ha temuto di prendere un corpo come il nostro e di farsi carico delle nostre ferite, affinché le nostre fragilità potessero divenire il luogo della manifestazione della sua grazia.

“Per le sue piaghe noi siamo stati guariti”  (Is 53,5)

Buon cammino a tutti verso il Signore che viene.

“L’amore tra sposi? È un dono di Dio!” [Intervista]

Domenica scorsa siamo stati a San Donà di Piave (VE), invitati ad accompagnare con una relazione e delle attività di riflessione guidata, la festa vicariale della famiglia. Il titolo della giornata era: Se tu conoscessi il dono di Dio. La sessualità nel matrimonio. In questa occasione siamo stati intervistati per l’inserto Vita in famiglia del settimanale diocesano La vita del Popolo. Per chi volesse leggere l’intervista la pubblichiamo di seguito.

“La sessualità, il sesso, è un dono di Dio. Niente tabù. È un dono di Dio, un dono che il Signore ci dà”. Giusto un anno fa Papa Francesco usava queste parole per rispondere alle domande di un gruppo di giovani della Diocesi di Grenoble-Vienne ricevuti in udienza. “Il sesso – ha continuato il Pontefice – ha due scopi: amarsi e generare vita. È una passione, è l’amore appassionato. Il vero amore è appassionato. L’amore fra un uomo e una donna, quando è appassionato, ti porta a dare la vita per sempre. Sempre. E a darla con il corpo e l’anima”. E tutto questo c’entra profondamente con il sacramento del matrimonio, con la fede e con la spiritualità che più si fa concreta e quotidiana più diventa autentica.

Lo spiegano bene Tommaso e Giulia, sposi della diocesi di Bologna da una decina d’anni, formati sulla teologia del corpo frequentando prima il Master in fertilità e sessualità coniugale presso il Pontificio istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, poi il corso Theology of the Body Institute tenuti da Christopher West in America. Intervengono domenica all’incontro organizzato dal vicariato di San Donà di Piave su questi temi.

La “teologia del corpo” di San Giovanni Paolo II è riferimento cruciale. Cosa si può dire, in poche parole?

Sono 129 discorsi sull’amore umano che il pontefice polacco pronunciò nelle sue udienze del mercoledì dal 1979 al 1984, un profondo e sorprendente percorso composto in preghiera di fronte all’eucarestia. Per noi non si è trattato di una folgorazione, ma di una lenta scoperta di bellezza che è diventata progressiva trasformazione del nostro modo di vedere e di vivere la mascolinità e la femminilità, il matrimonio e tutta la nostra fede.

L’avete definita “un messaggio di redenzione, una straordinaria sintesi evangelica”…

Scorgere una risonanza profonda di queste riflessioni di Giovanni Paolo II nella propria esperienza di vita, nel matrimonio, nello sguardo sull’altro sesso…  Che bello poter decifrare il grido del proprio cuore assetato di pienezza e riconoscere che Cristo da sempre ascolta quel grido e desidera saziarlo. Che liberazione scoprire e riscoprire il senso del proprio essere corpo e della propria tensione erotica, osservando questo mistero dal principio fino alla sua prospettiva ultima e definitiva. Che meraviglia iniziare ad intuire la grandezza della chiamata al dono di sé, del senso del matrimonio, dell’unione sessuale, della castità, del celibato …

L’incontro titola: “Se tu conoscessi il dono di Dio. La sessualità nel matrimonio”. Qual è il legame tra sessualità e sacramento?

I sacramenti ci rivelano misteri spirituali attraverso segni fisici e concreti in cui siamo coinvolti con tutto ciò che siamo per essere uniti a Cristo. Noi abbiamo perso la capacità di cogliere il mistero dei gesti che compiamo nella liturgia, ma senza il corpo non ci sarebbero nemmeno i Sacramenti: senza l’immersione del corpo in acqua e l’unzione con olio non avremmo il battesimo, senza il mangiare l’unico pane consacrato non avremmo l’Eucaristia… Così è anche nel matrimonio, senza l’unirsi in una carne degli sposi non ci sarebbe il matrimonio sacramentale: non viene considerato valido finché i due sposi non si uniscono sessualmente. Questo perché le promesse che i coniugi si scambiano all’altare, di accoglienza e donazione reciproca totale, fedele e feconda, non possono realizzarsi “in astratto”, ma solo se tali “parole” si incarnano nella vita della coppia, e il rapporto sessuale compie tali promesse, le rende vere attraverso il corpo degli sposi.

Anche sessualità e spiritualità sono ambiti spesso considerati distinti, separati….

Questa frattura in parte è eredità di un certo approccio manicheo, che considera lo spirito superiore al corpo, ma è anche conseguenza di una educazione falsata dalla concupiscenza. Se infatti come educatore, consacrato o genitore, la mia sessualità mi crea problema, finirò per proiettarlo su di essa evitando l’argomento o trattandolo con rigidità ed intransigenza. La sessualità è un dono che Dio ci fa per immetterci sulla strada dell’amore. Senza eros infatti non ci innamoreremmo e senza di esso non inizieremmo ad amare: se Dio ha a che fare con l’amore, allora anche la sessualità ha a che fare con Dio.

Nel matrimonio si incontrano due persone diverse per eccellenza, uomo e donna. Come incide la differenza? E si ricompone? Come?

Tante volte essa diviene purtroppo fonte di dolorose fratture. Ma la soluzione non è, come pensano molti, arrivare a smussare gli angoli e livellare le differenze perché proprio la differenza è lo spazio dell’incontro e della realizzazione dell’amore. Se fossimo uguali quale arricchimento potremmo donarci? Se fossimo uguali non ci sarebbe nessuna intimità da costruire nel corso della vita. Certo le differenze creano delle difficoltà, specie in un’epoca come la nostra in cui si è fatto coincidere la felicità con l’autorealizzazione, ma il cammino del matrimonio è aprirsi ad un amore più grande, quello di Cristo per l’umanità, un amore capace di accogliere l’altro in tutto ciò che è per farlo fiorire nella sua bellezza e unicità di persona.

E’ facile pensare che la quotidianità irrompe e modifica le relazioni, spesso le “consuma”, le “logora”, le svela per quello che sono (o peggio)…

L’immaginario comune ci porta a vedere la quotidianità come un tempo di ‘apnea’ in cui tirare avanti in attesa del weekend o delle vacanze in cui finalmente godere la vita, le relazioni … La nostra esperienza ci dice invece che la quotidianità è quantomai necessaria per crescere nell’amore e quindi anche nella sessualità. Se non imparo ad accogliere l’altro fin dalle piccole cose di tutti i giorni, ad esempio la richiesta di mettere a posto le scarpe invece di lasciarle in mezzo alla stanza, come posso pensare che si senta amato? E se non si sente amato nelle piccole cose di tutti i giorni, come farà a vivere l’unione sessuale come dono autentico di sé? Una volta un sacerdote ci ha detto che l’amore o si fa 24 ore al giorno oppure non si fa nemmeno quella mezz’oretta in camera da letto. Ogni giorno ci è data un’opportunità per crescere nell’amore, questo però comporta il mettere al centro l’altro, e non noi stessi con i nostri piani e le nostre aspettative. È una fatica da fare, ma l’unica che porta alla comunione.

Il contesto di oggi, con tutti i suoi fraintendimenti, non aiuta…

Non ci avventuriamo in complicate analisi sociologiche. Se guardiamo alla nostra esperienza, ci pare di poter dire che tanti fraintendimenti sulla sessualità nascono dal mix di questi due fattori: innanzitutto l’aver ridotto la sessualità ad una funzionalità prettamente biologica che ognuno può gestire a suo piacimento come ambito di divertimento e piacere sganciato dal resto della persona. In più negli ambienti cristiani ci ritroviamo ad aver ‘assorbito’ una visione distorta che separa in modo netto anima e corpo, spirituale e carnale, come se ci fosse in ognuno di noi una parte buona e una cattiva, o se non cattiva comunque meno buona e importante della prima.

Voi cosa consigliate per il bene di ogni matrimonio?

La relazione va curata, bisogna ritagliarsi spazi di dialogo profondo, dove possa crescere l’intimità, che prima ancora di essere fisica è un’intimità del cuore, per imparare un po’ alla volta a svelarci all’altro, nelle nostre gioie, nelle fatiche, sentendoci rispettati e non giudicati. Imparare a chiedere all’altro ciò di cui abbiamo bisogno senza ferirlo è uno degli obiettivi più importanti da raggiungere insieme. Curare la relazione poi, significa anche liberarla progressivamente da tutte quelle aspettative che ci portano a pretendere che l’altro ci renda felici. Tanti cortocircuiti di coppia nascono proprio da questa pretesa, solo l’amore di Dio è in grado di saziare le attese del nostro cuore, l’amore umano è un dono per scoprire insieme l’amore di Dio.

(Articolo di Francesca Gagno)

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