Il vestito senza vergogna – Eva risponde a Chiara Ferragni

Mercoledì 8 febbraio è stato pubblicato il seguente post sul profilo IG di Chiara Ferragni a commento dell’”abito senza vergogna” indossato la sera prima al festival di Sanremo:

“Riportare l’attenzione sui diritti delle donne, del loro corpo e su come disporre del corpo femminile dalle stesse sia, purtroppo, ancora considerato discusso e discutibile. Questo è l’obiettivo dietro questo look. […]

Realizzato negli atelier alta moda Dior il vestito in tulle color carne riproduce con un ricamo trompe l’oeil il corpo di Chiara Ferragni al naturale e liberato da quella vergogna che hanno sempre imposto a tutte, a partire da Eva, la prima donna della storia indotta a provare vergogna.

Questa illusione di nudità vuole ricordare a tutte il diritto e l’uguaglianza di genere che hanno nel mostrare, disporre di sé stesse senza doversi sentire giudicate o colpevoli. Questa illusione di nudità vuole ricordare che chiunque decida di mostrarsi, o sentirsi sexy non autorizza nessuno a giustificare le violenze degli uomini o ad attenuarne le colpe. Questo è il corpo di una donna, quello di Chiara Ferragni che vorrebbe dare voce a tutte le donne del mondo a cui vengono imposti divieti e abusi, a tutte coloro a cui viene detto che il loro corpo genera vergogna, che è solo un oggetto del desiderio o che istiga al peccato.

Questo è il corpo di tutte. Chi è senza peccato scagli la prima pietra!”

Chiaretta mia,

da quando ho visto il tuo “vestito senza vergogna” e il messaggio che lo accompagna sul tuo profilo IG, in cui prendi in causa anche me, sento il bisogno di scriverti, come tua progenitrice e quindi tua bis-bis-bis-all’infinito-nonna.

Cara nipote, la cosa che apprezzo di più del tuo messaggio è l’ultima frase: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”.

Su questo hai proprio ragione, tutti portiamo il segno del peccato originale in noi, che si chiama concupiscenza, e che ci condiziona quotidianamente. Sì, lo so, è una parola che forse non hai mai sentito. Concupiscenza significa, in un certo senso, che, da quando io e Adamo abbiamo deciso di fare di testa nostra, cioè quando abbiamo messo in dubbio l’amore di Dio per noi, da lì in poi qualcosa nel nostro cuore è cambiato. Sai, la storiella che abbiamo mangiato la mela significa proprio questo: non ci siamo fidati di quello che Dio ci aveva detto per il nostro bene, ma lo abbiamo messo in dubbio, abbiamo messo in dubbio il suo amore e da lì in poi non ci siamo più fidati di nessuno, nemmeno l’uno dell’altro, nemmeno di noi stessi. Da lì in poi siamo precipitati in una profonda confusione, da lì in poi tutto ciò che prima era limpido è divenuto opaco, tutto ciò che era unificato si è frammentato, tutto ciò che era amore e fiducia è divenuto timore e possesso.

Il fatto che prima eravamo “nudi senza vergogna” e poi, dopo il peccato originale, ci siamo coperti e vestiti, testimonia proprio questo cambiamento.

Ciò che è cambiato non è il nostro corpo, che Dio ha creato come la cosa più bella del Paradiso, e infatti davanti a Lui passeggiavamo nudi, ciò che è cambiato, ahimè, è il nostro sguardo sul corpo e il nostro cuore.

Prima del peccato, io e Adamo potevamo stare nudi uno di fronte all’altra e godere della nostra bellezza, perché tutto di noi era trasparente: il nostro corpo rivelava la bellezza e la preziosità della nostra persona, il nostro sguardo l’uno verso l’altro era soltanto di amore, non conoscevamo il possesso. Io mi sentivo guardata e desiderata da Adamo come una persona unica e irripetibile da amare.

Adamo sapeva guardarmi in un modo di cui poi non è più stato capace: contemplandomi vedeva me e in me il dono prezioso che Dio gli aveva fatto e si sentiva amato e prediletto da Dio. Il suo desiderio era soltanto quello di accogliermi e di essere un dono per me. In quello sguardo io ritrovavo me stessa ed ero libera da ogni timore, timore di essere rifiutata, timore di essere usata, io ero per lui e lui per me.

Come era bello il mio Adamo, anche lui era totalmente libero: libero da sé stesso, libero dal timore di non essere all’altezza, libero da ansie di prestazione.   

Dopo il peccato, come ti stavo dicendo, tutto è cambiato, si è rotto qualcosa: non ci guardavamo più come prima, l’altro non era più al primo posto, ognuno di noi era più preoccupato per se stesso ed in fondo anche più confuso su se stesso.

Ci siamo improvvisamente accorti che io temevo il suo sguardo e lui temeva il mio. Io temevo che lui mi giudicasse, che si potesse approfittare di me, e lui allo stesso modo. In effetti il nostro sguardo non era più in grado di vedere tutto di noi, il nostro corpo non era più trasparenza della nostra persona, eravamo diventati opachi a noi stessi e all’altro. Il nostro sguardo era diventato incapace di profondità, si soffermava solo sull’esteriorità dell’altro, sugli attributi sessuali del suo corpo, facendoci quasi dimenticare che il corpo rivela la persona, e che l’unico modo appropriato per entrare in relazione con una persona è l’amore, mai il possesso, mai l’utilitarismo, mai la manipolazione, mai la violenza.

Per questo oggi abbiamo bisogno di coprirci. Non per vergogna, non perché il nostro corpo fosse brutto, o istigasse al peccato, come dici tu, ma perché avevamo bisogno di proteggerci da uno sguardo di questo tipo, uno sguardo parziale, divenuto incapace di cogliere l’inviolabile dignità della persona oltre l’esteriorità, e perché avevamo bisogno di tutelare il nostro stesso sguardo verso l’altro.

Per cui, cara nipote del 2023, hai perfettamente ragione quando dici che “mostrarsi, o sentirsi sexy non autorizza nessuno a giustificare le violenze degli uomini o ad attenuarne le colpe”, ma è anche vero che oltre a chiedere rispetto agli uomini, dobbiamo essere noi per prime a rispettare noi stesse.

E allora forse, il primo passo per rispettare noi stesse potrebbe essere quello di non proporci come semplici oggetti del piacere sessuale maschile, l’essere “sexy” appunto! Il vocabolario Treccani ci ricorda infatti che è “sexy” chi riesce ad essere sessualmente eccitante.

Abbiamo fatto coincidere l’essere belle con l’essere sexy, ma c’è un altro modo di essere belle e femminili che non necessariamente passa per il proporci come prodotti ad uso e consumo della lussuria maschile. 

È necessario che la bellezza con cui ci proponiamo tenga conto della ferita del cuore maschile e della ferita del nostro cuore. Se vogliamo rispettare noi stesse e farci rispettare, dobbiamo sapere che mostrandoci nude o seminude, ci espone ad uno sguardo di possesso, di utilizzo, di mercificazione: non è un fatto culturale, è un difetto del nostro cuore che si rivela nel nostro sguardo, è una realtà da affrontare dentro di noi, attraverso un cammino di purificazione e che ci renda sempre più capaci di vedere la persona intera, non solo il suo corpo.

E sai qual è l’antidoto a questo tipo di sguardo? Solo l’amore, solo l’amore è capace di assorbire la vergogna, solo l’amore rende capaci di vedere la persona intera e non solo il suo corpo. Ma temo che oggi si sia smarrito il vero significato del termine amore.

Allora cara nipote, se il tuo obiettivo era quello di “riportare l’attenzione sui diritti delle donne, del loro corpo e su come disporre del corpo femminile dalle stesse sia, purtroppo, ancora considerato discusso e discutibile” fai attenzione alle contraddizioni: il tuo vestito è volutamente contraddittorio, dice di un volersi mostrare pur nella necessità di coprirsi; ma l’apparire sexy con la pretesa che l’altro non ci consideri un oggetto sessuale è altrettanto contradditorio.

Chiaretta mia, dai retta a me, fai un po’ di ordine nel tuo cuore, nei tuoi desideri e chiediti innanzitutto che cosa cerchi: che valore dai al tuo corpo? Che valore dai a te stessa? Che tipo di sguardo desideri ricevere da un uomo? Sai, può essere gratificante ricevere uno sguardo di desiderio, ma se cerchi nel tuo cuore, ti renderai conto che ciò che una donna desidera e che la gratifica pienamente, è uno sguardo d’amore, e credo sia proprio questo che stai cercando, anche se ancora forse non lo sai.

Ma come ti vesti?! (teologia del corpo edition)

Vi ricordate il programma di Real Time condotto da una superchic Carla Gozzi e da Enzo Miccio? Nel corso di ogni puntata i due conduttori esaminavano il guardaroba della protagonista, ritenuta vestirsi male o con capi non adatti alla sua fisicità, e la aiutavano a realizzarne uno più alla moda e capace di valorizzare il suo aspetto.

Ecco, è da un po’ che rifletto sul tema dell’abito e quest’estate tale argomento si è ripresentato più volte, sia chiacchierando con alcune ragazze più giovani e condividendo insieme osservazioni e sensazioni personali, ma anche osservando l’abbigliamento estivo sfoggiato con molta nonchalance dalla teenager di oggi.

Sebbene non sia praticamente mai oggetto di catechesi o evangelizzazione, la questione del vestito non è da poco: l’abito non è affatto un dettaglio frivolo, non è una questione superficiale, l’abito infatti “presenta” la persona, manda un messaggio, dice cosa penso di me, cosa penso del mio corpo, come mi guardo e come voglio essere guardata.

È quindi un tema che riguarda in maniera profonda l’identità e qui lo esaminerò dal punto di vista femminile, il che non vuol dire non tener presente la prospettiva maschile, anzi.

Ancora una volta la teologia del corpo mi ha offerto le chiavi di lettura più illuminanti, a mio avviso, per districarmi in quest’ambito e, a partire da essa, desidero condividere 4 punti che Carla Gozzi ed Enzo Miccio definirebbero “Mai più senza”, ovvero quei riferimenti da tenere sempre presenti e che in questo caso, non riguardano caratteristiche estetiche, ma piuttosto coordinate di base più profonde, che la filosofia chiamerebbe antropologiche, ovvero riguardanti l’essenza dell’essere umano-persona.

Punto 1: Il corpo è sacramento della persona

Questo significa che il corpo rende visibile l’incomunicabile mistero della persona: detto in altri termini, il corpo manifesta la persona, che è unità inscindibile di anima e corpo.

Da ciò deriva che il corpo ha altissima dignità, non è un involucro muto, non è parte della persona, ma è la persona, è sua diretta espressione. Per questo motivo tutto ciò che riguarda la parte visibile di me, compreso il mio modo di vestire, parla di me, di come mi penso, di come mi sento. Se allora, siamo d’accordo sul fatto che ogni persona è preziosa, unica e irripetibile, anche il modo di vestire è chiamato a riflettere questa preziosità, questa unicità.

Ricordiamoci che siamo figlie di Dio, figlie di Re e siamo innanzitutto rivestite del Suo Amore, per questo motivo siamo autorizzate e possiamo autorizzarci a vestirci bene, a essere belle, a valorizzarci. Anzi, solo sulla base di questo presupposto il nostro essere belle prende pieno significato e valore.

Come avrete capito insomma, questo primo punto smonta direttamente tutti quegli atteggiamenti di svalutazione del corpo e del proprio aspetto fisico che spesso hanno preso piede in diversi ambienti cattolici. In certi contesti “parrocchiosi” ad esempio, mi facevano notare anche alcune giovani, se ti trucchi e ti vesti carina quasi ti senti in colpa perché temi che gli altri pensino che vuoi essere appariscente o che sei vanitosa.

Oserei dire che la prospettiva va proprio ribaltata: sminuirsi e svalutarsi con il proprio modo di vestire non è rendersi merito come persone, come figlie di Dio. Anche per questo il termine modest fashion spesso usato nel mondo cattolico non mi è mai particolarmente piaciuto (anche se comprendo cosa significhi), anzi lo ritengo proprio infelice perché l’aggettivo modesto, secondo la Treccani, è sinonimo di dimesso, senza pretese, umile… e da qui ad anonimo e sciatto la strada è breve.

Punto 2: Sei creata come femmina e lì c’è un dono per te e per gli altri

È proprio così, Dio ci ha creato femmine dando forma non solo al nostro corpo, ma anche alla nostra psiche (come pensiamo, come ci relazioniamo) e addirittura anche al nostro spirito, cioè la parte più profonda di noi, il nostro modo di amare.

È bello pensare che Dio mi ha creato in quanto donna perché la mia femminilità fosse un dono e perché il mio modo di amare fosse caratterizzato da quelle sfumature di tenerezza e cura che solo la femminilità sa incarnare.

Nel guardaroba allora dico sì a gonne, vestiti, capi svolazzanti e colorati, gioelli… insomma tutto ciò che è marcatamente femminile e che renda evidente una differenza con il mondo maschile. Non sto dicendo che dobbiamo essere tutte leopardate come Costanza Miriano (ognuno ha i suoi gusti) o tutte agghindate come se fossimo sul set di Un diavolo veste Prada, ma che per ciascuna, rispettando il proprio stile, sia importante un tocco di femminilità.

Mi sembra infatti un valore aggiunto testimoniare anche attraverso l’abbigliamento che l’essere donna è bello, che la femminilità è una caratteristica profonda della mia identità in cui mi riconosco appieno, pur nella mia specificità e modalità, e che non mi toglie nulla, anzi, è proprio l’identità profonda che Dio ha scelto per me e per la mia missione nel mondo.

Punto 3: Dio affida ad ogni donna la dignità di ogni uomo (e viceversa naturalmente)

Cosa significa abiti femminili? Provocanti e seducenti? Quanto è opportuno che sia lunga (o corta) la gonna? E quanto profonda la scollatura? Al mare in bikini e micro-brasiliana sì o no?

Qui permettetemi una citazione che smonta ogni questione di questo tipo e va dritta al punto. Chi conosce la teologia del corpo sa che Giovanni Paolo II commenta la famosa frase: “Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore” e mette in luce un fatto molto vero: per effetto della concupiscenza (leggi ferita del peccato originale) ognuno di noi è incline a guardare l’altro come qualcuno da usare/possedere, e c’è quindi bisogno di una redenzione del cuore che renda puro anche il nostro sguardo.

Allora – dice Giovanni Paolo II – Cristo in questo brano di Vangelo “assegna come compito ad ogni uomo la dignità di ogni donna; e contemporaneamente (sebbene dal testo ciò risulti solo in modo indiretto) assegna anche ad ogni donna la dignità di ogni uomo”.

Che vuol dire? Prendiamo il caso della moda mare di questi ultimi anni. Mi ricordo di un uomo sposato, cattolico, che aveva scritto su FB denunciando il tipo di costumi che portano le ragazze oggi, con lato B molto scoperto diciamo, perché non lo aiutavano rispetto alla sua personale lotta per la purezza. Ricordo anche la risposta di una signora che gli recriminava il fatto che un uomo, se davvero fosse integro, non dovrebbe neanche fare certi tipi di pensieri.

Ecco, Giovanni Paolo II dice non solo che è necessaria una lotta per la purezza, perché il cuore dell’uomo (e della donna) è ferito ontologicamente su questo punto. Ma poi responsabilizza entrambi dicendo: uomo, tu sei responsabile della dignità della donna; donna, tu sei responsabile della dignità dell’uomo.

La dignità riguarda il fatto che la persona è sacra, ha un valore inestimabile e non può mai essere ridotta ai suoi soli attributi sessuali.

Per noi donne essere responsabili della dignità dell’uomo può significare molte cose, ma, prima di tutto, significa essere consapevoli di questa ferita di cui l’uomo-maschio porta conseguenze in modo peculiare per ciò che riguarda lo sguardo sul femminile. Siamo chiamate ad aiutarlo nella lotta per la purezza dello sguardo, facendo sì che il suo sguardo, quando si posa su di noi, incontri sempre il mistero di una persona e non un’esposizione di mercanzia. Infatti, soltanto uno sguardo che vede nell’altro qualcuno e non qualcosa è uno sguardo pienamente all’altezza della dignità dell’essere uomo.

Siamo quindi custodi gli uni degli altri, custodi dello sguardo che si posa su di noi, custodi della nostra piena dignità di persone. Ciò non significa ovviamente indossare un burqa o una muta da sub, ma essere consapevoli che a seconda dell’abito che indossiamo possiamo custodire o meno chi ci guarda. Il pudore, ultimo punto, riguarda proprio questa custodia.

Punto 4: Pudore e nudità

Immaginate, uscendo dalla doccia, di essere sorprese dallo sguardo di uno sconosciuto alla finestra e immaginate la vostra reazione: vi coprireste immediatamente, ma non la faccia, bensì i vostri attributi sessuali. Diverso sarebbe se estrasse vostro marito da cui vi sentite profondamente amate.

Perché questa differenza di reazioni? Il pudore secondo GPII è una reazione difensiva naturale della persona che è portata a nascondere i propri attributi sessuali quando essi finiscono sotto lo sguardo di qualcuno che può ridurci esclusivamente ad essi, svilendo la dignità del nostro essere persona. Si tratta di un moto spontaneo di custodia che avviene perché ogni persona ha in sé il desiderio innato di essere amata, non di essere usata.

Allora il pudore è una parola preziosa da riscoprire: non è vergogna del corpo, non è nemmeno “pudicizia”, ma è il desiderio di suscitare amore, rispetto per l’integrità della nostra persona, e non di suscitare, al contrario, uno sguardo che spersonalizza, che oggettivizza, perché focalizzato solo sugli attributi sessuali.

A questo proposito, per quanto riguarda l’abbigliamento è interessante che Karol Wojtyla puntualizza che non è soltanto la quantità di pelle che scopriamo a definirne la moralità del vestito, quanto piuttosto la situazione/funzione dell’abito, e anche il tipo di relazione tra le persone coinvolte.

Ci sono infatti situazioni oggettive che richiedono che il corpo sia in parte scoperto, ad esempio, dice il papa: “Non è contrario fare il bagno in costume, ma è impudico portarlo per strada e nel corso di una passeggiata”, e qui va da sé che dovremmo mettere molto in discussione la moda attuale, e che non vale dire passivamente che la moda di oggi è questa e che si trovano solo vestiti così. Non è un fatto su cui si può sorvolare perché, a questo punto lo abbiamo capito, in gioco non c’è solo il vestito, ma la dignità della persone.

Infine ci sono situazioni, come ad esempio la relazione tra sposi, in cui la nudità, parziale o totale, non solo è pienamente rispettosa della dignità della persona in virtù dell’amore, che cambia lo sguardo sull’altro, ma potremmo dire che è anche necessaria. Infatti la mascolinità e la femminilità espressi anche nel corpo, permettono e alimentano l’amore tra i coniugi, che non è certamente solo platonico, ma vive di tutte le dimensioni della persona.

In conclusione, il tema dell’abbigliamento è complesso, vasto e cruciale in merito alla nostra identità nel senso più profondo del termine. Non è mai una questione solamente estetica, ma è sempre anche morale, ovvero oggetto di una scelta per il bene. Sarebbe bello allora se il vestito non prendesse forma solo dalla moda del momento o dal caso, ma dalla consapevolezza di tutto ciò che manifesta e significa e dalla convinzione che anche il nostro corpo e il nostro abbigliamento possono evangelizzare oppure no.