Non solo che finisca presto, ma che finisca bene #2

Riprendiamo questo augurio che era al centro di un nostro precedente articolo (che trovate qui) per una nuova riflessione relativa a questi tempi di pandemia.

Qualche giorno fa abbiamo fatto una lunga e piacevole chiacchierata Skype con un amico sacerdote e ci siamo scambiati varie considerazioni su cosa ci sta insegnando questo periodo di quarantena. In particolare, abbiamo riflettuto insieme sulla situazione delle parrocchie e sulle reazioni dei preti.

Ci ha colpito in particolare una sua frase, perché crediamo sia per certi versi emblematica di quanto è emerso in questo periodo. A suo dire questa situazione ha fatto verità, smascherando un certo clericalismo e facendo emergere i parroci per come sono stati formati, ovvero come funzionari del sacro.

Ci raccontava di aver sentito molti confratelli angosciati per il fatto che le persone si stanno disabituando ad andare a messa, delusi e amareggiati per la bassa audience ottenuta dai loro tentativi di celebrazione in streaming, preoccupati per i risvolti economici dovuti alla mancanza di introiti provenienti dalle offerte, in pena per le opere parrocchiali bloccate: oratori e dopo scuola chiusi, impossibilità di terminare l’anno catechistico.

Tutti in una grande agitazione e alle prese con la difficoltà di “ricollocarsi” in questa emergenza in cui, tutte le attività che di solito ruotano intorno a loro e li fanno sentire importanti, si sono improvvisamente bloccate, tutti ansiosi di tornare il prima possibile alla normalità, quasi che la loro fosse una delle tante “professioni” interdette dall’esercizio in questi tempi di lockdown.

È  un quadro che appare piuttosto sconfortante, e viene da chiedersi: possibile che in questo tempo di prova il Signore non volesse insegnare null’altro che agitazione e scoraggiamento?

Tutte queste preoccupazioni sono certamente legittime, ma quando diventano le uniche a sovrastano tutto il resto, allora forse è segno che qualcosa non va. A ben vedere, queste inquietudini rivelano come il sacerdozio sia ancora sentito più come un ruolo che come una missione a servizio della comunità, e come anche la vita parrocchiale, al di là dei tanti proclami, sia ancora percepita non come una realtà famigliare, bensì come una specie di centro servizi che deve garantire prestazioni ai propri utenti, una specie di Srl che deve curare la soddisfazione dei propri clienti.

Certo non è mai corretto generalizzare, perché indubbiamente ci sono anche sacerdoti che hanno reagito con grande creatività, mettendosi in ascolto dello Spirito, ma avendo ascoltato anche altre esperienze simili, temiamo che questa situazione non sia affatto rara in giro per l’Italia.

Probabilmente anche a tanti di noi sarà capitato, in questa fase, di vedere preti improvvisarsi youtuber e altri avventurarsi in dirette facebook degne di Paperissima, tutto per poter offrire il servizio di diretta streaming della messa domenicale e quotidiana quasi non ci fossero altre opportunità.

Sappiamo però che la Liturgia Eucaristica è un’esperienza da vivere in prima persona, guardarla in HD dal proprio divano è meglio di niente, ma la cosa non è nemmeno lontanamente paragonabile al parteciparvi fisicamente insieme a tutta la comunità. Allora ci chiediamo: perché investire tempo, energie e mezzi per moltiplicare le dirette e tentare di tenere in piedi lo status quo, invece di lasciarsi interrogare e rinnovare da queste nuove circostanze? Tutto questo, non rischia forse di essere un versare vino vecchio in otri nuovi? In fondo, a garantire la trasmissione di una messa ben curata in TV e sul web ci sono già le diocesi, che per altro hanno a disposizione mezzi certamente più all’avanguardia, nonché il papa.

Conosciamo la centralità del Mistero Eucaristico e il suo essere fonte e culmine della vita cristiana, ma spesso dimentichiamo che il suo fine, come esplicitato nella preghiera eucaristica, è che possiamo divenire tutti «un solo corpo» in Cristo. La liturgia non è per celebrare sé stessa, ma è perché possiamo essere, come direbbe San Paolo, «corpo di Cristo e sue membra», ovvero una comunità di persone unite dall’amore, in cui l’unità è superiore ai conflitti.

Questo tempo ci ha volenti o nolenti privato della dimensione del culto, ma non ci ha tolto l’essere corpo di Cristo e l’essere membra gli uni degli altri.

Allora, pensando ai sacerdoti, ci chiediamo: se a causa delle restrizioni, non è possibile distribuire il corpo di Cristo nell’ostia consacrata, perché non uscire da una prospettiva sacrale e cultuale per restituire valore al corpo di Cristo costituito dalla comunità dei fedeli per cui Cristo ha dato la sua vita?

Non potrebbe essere proprio questo, il più grande “successo pastorale” degli ultimi tempi? Che i fedeli, in questa particolare circostanza, invece di tirare i remi in barca aspettando la ripresa o accontentandosi di servizi virtuali a domicilio, inizino ad esercitare il loro sacerdozio battesimale come protagonisti della loro vita di fede?

Perché non aiutare le famiglie a prendere coscienza del loro essere chiesa domestica, indicando loro nuove modalità per vivere la fede e la preghiera tra le mura di casa?

Perché non farsi un poco da parte per aiutare i fedeli a sentirsi parte di una Chiesa più grande, incoraggiandoli a raccogliersi attorno al vescovo, almeno per ascoltare la Messa domenicale?

Perché non scendere dal piedistallo del proprio ruolo e iniziare a personalizzare i rapporti con le persone, facendosi presenti con gesti semplici? Una telefonata per sapere come va, un messaggio per far sapere che sono ricordate, piccole attenzioni che costruiscono unità.

Perché non riscoprire il valore del servizio concreto alle persone in quanto «corpo di Cristo»?  Quel servizio che viene richiamato ogni giovedì santo col gesto simbolico della lavanda dei piedi, perché non incarnarlo al di fuori degli schemi del culto, portando magari la spesa agli anziani o interessandosi a chi vive difficoltà concrete?

Sono spunti di riflessione, domande certamente scomode, e non le poniamo, sia chiaro, per fare un processo ai sacerdoti. Noi stessi, come sposi e come laici, su questi punti abbiamo ancora tanto da imparare e da crescere per essere veramente «corpo di Cristo» e dare vita alle Sue parole: «da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri». (Gv 13,35) Crediamo però che per ciascuno di noi sia arrivato il tempo propizio per un esame di coscienza generale su come siamo stati abituati a vivere il nostro essere Chiesa nella realtà parrocchiale.

Sembra ormai ufficiale che tra una decina di giorni, potremo tornare a celebrare l’Eucaristia comunitaria, la speranza è che possiamo arrivarci con uno sguardo sempre più libero dal clericalismo, così che all’interno delle pietre dell’edificio chiesa ci siano le «pietre vive» di una comunità che si ama e non impiegati e clienti di una Srl guidata da un amministratore delegato.

La Chiesa, ci ha ripetuto più volte papa Francesco, «è e deve essere la famiglia di Dio»: solo aprendoci a questo mistero e liberandoci da tutte le derive da “centro servizi” a cui siamo stati abitati, tutta questa avventura potrà finire non solo presto, ma soprattutto bene.

Non solo che finisca presto, ma che finisca bene

«Non solo che finisca presto, ma che finisca bene», questo l’augurio che ci ha fatto qualche giorno fa un amico prete in relazione all’attuale situazione coronavirus. Un augurio che ci ha suscitato diverse riflessioni e che ci pare abbia anche alcuni punti di contatto col vangelo dei discepoli di Emmaus che ci accompagna questa domenica.

Conosciamo tutti il brano dei discepoli di Emmaus, questa coppia in cammino verso un paese poco distante da Gerusalemme. Essi stanno vivendo una grande angoscia, sono tesi, delusi e spaventati e discutono animatamente dei fatti accaduti a Gesù. Non capiscono come mai sia potuto andare tutto storto: si aspettavano un esito diverso, ma le cose sono inspiegabilmente precipitate. Discutono cercando di trovare le cause, di individuare i responsabili, di capire come sia potuto accadere.

Questa situazione pare in qualche modo accostabile a ciò che stiamo vivendo come cristiani in questa pandemia, con l’annessa quarantena. Non ci spieghiamo come sia potuto succedere,  come siamo arrivati ad una situazione così complicata e difficile da accettare sotto tanti aspetti. Perché da quasi due mesi tutto si è fermato e siamo barricati in casa?  E soprattutto perché il divieto di partecipare alla Messa? Possibile che non  esistano altre soluzioni? E allora ci tormentiamo: c’è chi si dispera, chi vede maledizioni divine, chi attacca le istituzioni per far ripartire le cose, chi urla al complotto. Certamente è una prova, percepiamo che ci è stato tolto qualcosa di vitale, ma un po’ come i due di Emmaus rischiamo di non accorgerci che il Signore Gesù è vivo e cammina con noi.

Nel brano, mentre i discepoli sono nel pieno delle loro lamentazioni, lo sconosciuto che cammina con loro (Gesù) gli chiede su cosa stiano discutendo. Lui che è stato il protagonista di quei fatti, si prende del forestiero, dell’ignorante e si fa raccontare il loro punto di vista. Poi per fortuna, ad un tratto, le recriminazioni si interrompono e finalmente, in quel breve attimo di silenzio, Gesù può prendere la parola:  spiega loro che anche quello che non comprendono può rivelarsi come mistero di salvezza, se guardato dalla giusta prospettiva, dalla Sua prospettiva. Ed ecco che finalmente la Sua parola inizia a scaldare i loro cuori confusi e turbati.

Ritornando a noi e alla nostra quarantena, vogliamo domandarci: abbiamo permesso a Gesù di parlarci, di spiegarci cosa si riferisce a Lui nella situazione che stiamo vivendo? Ci siamo accorti della sua presenza tra noi nell’ordinarietà del nostro difficile cammino quotidiano? Oppure abbiamo dato spazio solo alle nostre  frustrazioni e alle nostre lamentele?

Per fortuna Cristo è molto meno forestiero di noi nelle situazioni della nostra vita. Forse, se per un attimo cessassimo di lamentarci, potremmo metterci in ascolto di ciò che ci vuole dire.

In ogni caso, se glielo chiediamo, resta con noi. Gesù infatti, si ferma ad Emmaus con i due discepoli, entra in casa, cena con loro e si manifesta ai loro occhi. Qui essi possono finalmente riconoscerlo nello spezzare il pane. Questo riconoscimento però, non appare legato al solo momento eucaristico, ma rappresenta il compimento di un processo più lungo iniziato durante il cammino. Per la strada infatti, hanno camminato con lui, lo hanno ascoltato, si sono lasciati condurre fuori dai loro schemi e infine lo hanno invitato ad entrare nella loro casa.

Questa mensa di Emmaus, richiama certamente la Liturgia Eucaristica che tanto ci sta mancando in questi giorni di quarantena. Allora possiamo chiederci: quando torneremo di nuovo a partecipare alla Messa saremo in grado di riconoscerlo? Saremo in grado di riconoscerlo se lungo la strada della quarantena non siamo entrati in un rapporto personale con Lui?

Tante volte ci è capitato di partecipare allo spezzare del pane, senza che i nostri occhi fossero in grado di riconoscerlo, presente nella nostra vita.

L’augurio è che questa volta, quando torneremo a Messa, non sia così! Possa, questa attesa, scaldare il nostro cuore, così che possiamo presentarci alla prossima Liturgia Eucaristica pronti a fare memoria delle parole che ci ha detto, dei passi fatti insieme, delle nuove prospettive che ci ha aperto in questo tempo. Pronti ad offrire su quell’altare tutta la concretezza della nostra vita. Così la nostra Eucarestia tornerà ad essere un dono vitale che ci unisce sempre più intimamente a Cristo e ai fratelli.

Ci auguriamo che la riapertura al pubblico delle Messe sia ormai vicina, non lasciamoci quindi scappare questo ultimo periodo di quarantena, per riscoprire la Sua presenza nel nostro cammino quotidiano. Lo ripetiamo, lui è molto meno forestiero di quanto crediamo in ogni situazione della nostra vita.

Solo così tutta questa avventura potrà finire non solo presto, ma soprattutto bene.

Caffè teologico di coppia

Non so voi, ma per noi pregare insieme è sempre stata una sfida.

Lasciamo stare l’imbarazzo iniziale, da cui sono ormai passati tanti anni.

Le difficoltà di oggi sono principalmente scegliere la modalità (condivisione sul Vangelo del giorno o lettura continuativa della Bibbia? Preghiera spontanea o decina del rosario? La mattina o la sera? Tanto per dirne alcune!) e portarla avanti con perseveranza… tutto insomma!

In questa quarantena, durante la quale siamo a casa entrambi, ci siamo dapprima mossi un po’ a casaccio, ma poi abbiamo sentito l’esigenza di trovare un modo soddisfacente per pregare insieme, perché se non lo facciamo ora che condividiamo il tempo e lo spazio tutto il giorno, quando lo faremo? Non volevamo perdere questa occasione preziosa: può essere infatti il momento opportuno per iniziare una buona abitudine da mantenere, con i dovuti aggiustamenti, anche quando si tornerà alla normalità.

Così abbiamo deciso di sperimentare un po’ di strade e abbiamo trovato la formula che fa per noi, almeno in questo tempo.

Innanzitutto abbiamo pensato di tenere fermo lo spazio di preghiera personale che ciascuno di noi fa il mattino, meditando le letture del giorno. Come dice il nostro padre spirituale, è il cibo della giornata, è il pane che il Signore ogni giorno ti offre, e proprio perché Lui è vivo e presente nel qui e ora, anche la Sua Parola ci parla in modo personale, giorno per giorno. E infatti abbiamo sperimentato tante volte di ricevere proprio ciò di cui avevamo bisogno: una parola di consolazione, o di incoraggiamento, o una conferma rispetto a qualche scelta, o ancora, una parola di speranza.

Certo ci sono poi giorni, ma anche periodi interi alle volte, in cui sembra che la Parola non ci dica nulla… a volte perché siamo noi ad avere il cuore lontano e chiuso, altre volte invece perché è semplicemente così: come in tutte le relazioni, ci sono momenti in cui non abbiamo molto da dirci, ma questo non significa non poter godere della Sua presenza.

La preghiera personale è quindi per noi un momento irrinunciabile di incontro a tu per tu con il Signore e sentiamo l’esigenza di coltivarlo, convinti che non possa essere sostituibile dalla preghiera di coppia.

Ma accanto a questo spazio, ci mancava un momento da vivere insieme e quindi abbiamo deciso di fare seriamente e con continuità quello che già da tempo ci era stato consigliato, ma che fino ad oggi non eravamo riusciti a fare con costanza.

Il suggerimento era molto semplice: prendersi qualche minuto per condividere insieme ciò che il Vangelo del giorno ha fatto risuonare in noi nella preghiera personale, rispetto a quello che viviamo quel preciso giorno o periodo. In questo modo possiamo passare da una dimensione individuale, a una di coppia: cosa il Signore dice a noi come coppia, come si fa presente tra noi, cosa ci vuole comunicare come sposi?

Scelta la modalità, per aiutarci nella perseveranza, abbiamo pensato di legare questo momento ad un nostro “rito” quotidiano: il caffè del dopo pranzo. Abbiamo quindi istituito il “caffè teologico”: mentre lo prepariamo abbiamo tempo di ripensare alla Parola ascoltata il mattino e a ciò che ci ha suscitato, poi mentre lo beviamo insieme, magari godendoci un po’ di sole in giardino, condividiamo qualche pensiero. Non occorrono ore, ma solo qualche minuto in cui donarsi reciprocamente vero ascolto.

Abbiamo così scoperto un modo molto concreto e semplice per arricchirci reciprocamente e per godere dell’ispirazione creativa della Parola, tante volte infatti, ciò che uno condivide all’altro diventa pane per entrambi, e nutrimento che alimenta la comunione e l’unità tra di noi.

Quando si tornerà al lavoro non sarà più possibile prendere il caffè insieme dopo pranzo, per cui sarà necessario riprogrammare il caffè teologico, magari diventerà l’aperitivo teologico o il dopo cena teologico, vedremo, ma la nostra speranza è che aver goduto di questo momento, alimenti il desiderio e la fermezza di trovare, ancora una volta, il modo appropriato per pregare insieme.

Coronavirus e altri contagi (spirituali)

Chi l’avrebbe mai detto, eppure viviamo i tempi del coronavirus e in questi giorni di allarme contagi, le nostre vite e le nostre abitudini stanno mutando drasticamente.

Come è già stato fatto notare da qualcuno, questa situazione ci costringe, volenti o nolenti, a scontrarci con la nostra fragilità intrinseca, con il limite e con la debolezza, aspetti che ci appartengono in quanto esseri umani ma che molto volentieri “dimentichiamo”.

Certo tutti gli agi e le comodità in cui viviamo ci hanno allontanato ancora di più da queste dimensioni legate alla nostra precarietà, mentre ai tempi dei nostri nonni, tra influenza spagnola, guerre mondiali e ristrettezze economiche, era decisamente più improbabile dare per scontati la salute, il benessere, e una vita lunga e tranquilla.

Ma oltre ad offrirci l’opportunità di uno sguardo più disilluso sulla nostra condizione, e anche più grato per il grande dono della vita, credo che l’attuale emergenza sia anche in grado di regalarci un altro piccolo risvolto positivo, almeno come spunto di riflessione.

Ci siamo presto accorti di come il pericolo del contagio abbia modificato il nostro modo di vivere i rapporti sociali: evitare luoghi di aggregazione, attenzione alla respirazione, all’igiene, al toccare cose e persone. Come sappiamo, le linee guida per garantire la sicurezza prescrivono di evitare baci, abbracci e strette di mano, impongono almeno un metro di distanza dalle altre persone, stravolgendo così la fisionomia dei nostri rapporti, privandoci della parte più fisica, calorosa ed umana delle nostre relazioni.

Improvvisamente siamo diventati tutti molto attenti a controllare quei gesti che possono da un lato esporci al contagio e dall’altro nuocere potenzialmente agli altri. Il nostro corpo in quanto soggetto a rischio e potenziale fonte di contagio è stato, possiamo dire, come imbavagliato, inibito, eppure, allo stesso tempo, custodito.

La teologia del corpo ci insegna come ogni persona sia una unità inscindibile di corpo e spirito, di “ciccia” e interiorità, e come questa verità antropologica renda la nostra corporeità portatrice di grandi insegnamenti spirituali.

Credo che anche in questa situazione, questo nostro corpo, da un lato fragile e vulnerabile, dall’altro potenziale diffusore di contagio, possa offrirci un’importante lezione spirituale.

Infatti, se in questi giorni abbiamo scoperto di poter essere portatori inconsapevoli di un pericoloso virus e di poter nuocere a chi ci sta intorno attraverso innocenti gesti quotidiani,  ciò che invece continuiamo a trascurare è il fatto che esistono anche altri elementi nocivi di cui possiamo essere portatori inconsapevoli, elementi spiritualmente nocivi che possono contagiare chi ci sta intorno.

Basti pensare alle volte in cui ci ritroviamo portatori di rancore verso qualcosa o qualcuno. Non di rado questa rabbia che proviamo, invece di essere regolata ed utilizzata in modo costruttivo, finisce per sfogarsi sul primo malcapitato che involontariamente ci irrita, oppure va a cercare consenso accendendo anche la rabbia altrui.

Ma pensiamo anche a tutti quei giudizi interiori sugli altri che custodiamo gelosamente per difenderci o per sentirci migliori di loro, e pensiamo a quanto facilmente questi giudizi interiori si tramutino in atteggiamenti e parole capaci di diffondere disprezzo e cattiveria.

E ancora, soffermiamoci un istante su sentimenti come la tristezza, il pessimismo e e la paura, che certamente non possiamo fare a meno di sperimentare, ma con cui di frequente finiamo per stringere pericolose alleanze. Quante volte le nostre parole finiscono per veicolare questi stati d’animo che, come virus pericolosi, possono tramutarsi in altrettante infezioni a contatto con le persone più fragili.

Gesù nel vangelo ci ricorda come inesorabilmente è ciò che esce dal nostro cuore che può contaminare l’uomo (cfr. Mc 7,18-23) 

A ben vedere, basterebbe davvero una piccola parte dell’attenzione che ognuno di noi oggi sta scrupolosamente avendo per fermare la diffusione del coronavirus, per non esporre chi ci sta intorno al contagio dei tanti “virus interiori” di cui ci troviamo spesso ad essere portatori.

Se imparassimo a contenere le parole come stiamo contenendo starnuti e colpi di tosse, se fossimo attenti ad una certa igiene interiore come siamo attenti all’igiene delle nostre mani, davvero tante nostre relazioni andrebbero incontro ad una guarigione.

Credo ci sia un insegnamento da cogliere anche sul fronte della nostra personale incolumità. Perché se è vero che a volte siamo noi ad essere diffusori più o meno inconsapevoli di questi “virus spirituali”, è pur vero che altre volte siamo noi a ritrovarci vittime di questo contagio.

Ciascuno di noi ha certamente sperimentato come in alcune situazioni il malessere altrui sia in grado di propagarsi anche su di noi. Ricordo molto bene che alcuni anni fa, mi accorsi di come alcune conversazioni con colleghi particolarmente critici e lamentosi avessero finito per “contagiare” anche il mio approccio lavorativo. Purtroppo, tutte le patologie spirituali a cui accennavamo poco sopra sono in grado in un certo modo di infettare anche noi. Ecco perché occorrerebbe anche qui una certa precauzione.

Se usassimo un pizzico della premura con cui oggi ci stiamo proteggendo dal contagio del coronavirus per custodirci anche da questi focolai di infezione spirituale, ne trarremo tutti un grande beneficio.

Alle volte diventa una sacrosanta precauzione saper dare un confine a chi ci sta accanto, prendere le distanze da certi atteggiamenti, imparare ad “igienizzare” certi sfoghi con la giusta dose di ironia…

Custodirci e custodire dal contagio di ciò che nuoce alla nostra vita interiore è una cosa per la quale non riceveremo mai istruzioni a domicilio, né vedremo prime pagine dei giornali o servizi dedicati nei TG, ma rappresenta un significativo stimolo che questi tempi di coronavirus ci stanno offrendo, attraverso la mediazione del nostro corpo e della sua preziosa fragilità. 

L’augurio è quindi che il nostro senso di responsabilità possa, in questo complicato contesto, allargare i propri orizzonti. A tutti buon cammino di prevenzione da ogni forma di contagio.