Il vescovo che non aveva paura a parlare di sesso

Dopo aver celebrato i sessant’anni dell’opera teatrale La bottega dell’orefice, ci soffermiamo su un altro capolavoro di San Giovanni Paolo II, il suo primo libro: Amore e Responsabilità che quest’anno spegne anch’esso ben 60 candeline. Si tratta di due opere tra loro diversissime eppure intimamente collegate: come attesta infatti il suo biografo George Weigel, Amore e Responsabilità costituisce il complemento filosofico ai problemi indagati nel dramma teatrale La bottega dell’orefice.

Karol Wojtyła non fu mai un pensatore da biblioteca, la sua produzione intellettuale nasceva sempre dal travaglio dell’esperienza pastorale con i giovani e le famiglie.

Il tempo speso con i giovani nelle gite in montagna, nella preparazione al matrimonio, nella direzione spirituale e nel confessionale avevano convinto il giovane vescovo che l’etica sessuale della Chiesa esigesse una nuova elaborazione. Occorreva accogliere le domande che risuonavano in quei giovani cuori e consentire loro di scoprire il senso profondo dell’amore sessuale.

Negli ambienti ecclesiali dell’epoca (siamo prima del Concilio Vaticano II), a parte rare eccezioni, riguardo al matrimonio era ancora diffuso un approccio pastorale di stampo giuridico che insisteva sui “fini del matrimonio” (un fine primario, la procreazione e due fini secondari: mutuo aiuto e rimedio alla concupiscenza). Si trattava di un approccio centrato quasi esclusivamente sulla norma che però trascurava l’esperienza e la storia concreta delle persone, insomma un atteggiamento molto più preoccupato delle proibizioni che dell’amore.

Questa modalità pastorale purtroppo si prestava ad essere intesa (e spesso lo era) come una svalutazione dell’amore sessuale e dell’affetto tra gli sposi, e contribuiva ad alimentare un certo sospetto verso il corpo, la sessualità ed il piacere.

Wojtyła si rendeva conto che di fronte alla cultura che si stava diffondendo nel modo occidentale, occorreva una risposta ben diversa da quanto sin lì proposto. Sapeva bene che l’accompagnamento spirituale non poteva limitarsi a comandi e proibizioni, ma richiedeva l’arte di interpretare e spiegare l’insegnamento evangelico sulla sessualità nelle concrete situazioni della vita, attraverso un approccio in grado di valorizzarne la bellezza e la prospettiva di pienezza.

L’occasione di scrivere un’opera a questo riguardo gli venne quando fu incaricato di tenere il corso di etica sessuale presso l’Università Cattolica di Lublino in cui fu docente dal ’54 al ‘61. L’estate precedente l’inizio del corso, decise di far circolare la bozza delle dispense che aveva preparato tra gli amici dell’ambiente di Cracovia e durante una vacanza sui laghi chiese che ogni giorno qualcuno preparasse una relazione su un capitolo così da poterne discutere insieme. La cosa che più affascinò i giovani fu il fatto che Wojtyła non era interessato soltanto al loro giudizio sulla solidità teorica dei contenuti, ma ci teneva soprattutto a sapere se quello che aveva scritto aveva senso nella loro concreta esperienza di vita. 

Fu da questo “laboratorio” sperimentale e profetico che venne alla luce Amore e Responsabilità

Nel suo testo Wojtyła propone una prospettiva completamente nuova all’etica sessuale introducendone a fondamento il comandamento dell’amore e la conseguente “norma personalistica”.

Secondo questa norma, la persona è un bene che non si accorda con l’utilizzo, non può essere trattata come un oggetto di uso, come un mezzo subordinato ad un fine; la persona è un bene al punto che solo l’amore può dettare l’atteggiamento adatto e interamente valido a suo riguardo. Insomma, la persona non può mai essere trattata come un mezzo ma solo come un fine.

In questo modo Wojtyła faceva emergere tutti i limiti della dottrina sui fini del matrimonio, mostrando ad esempio come un marito potrebbe tranquillamente usare la propria moglie come un mezzo per il fine della procreazione restando formalmente fedele alla dottrina dei fini del matrimonio.

Il modo migliore per affrontare la morale sessuale, secondo Wojtyła, non poteva quindi che essere quello di affrontarla in un contesto di amore e responsabilità, in quanto l’amore è un’espressione di responsabilità personale verso un altro essere umano e verso Dio.

In questo modo, l’amore può essere solo l’incontro di due libertà in cui ciascuna è responsabile per il bene dell’altro. Solo in questo modo il sesso cessa di essere qualcosa che semplicemente accade, o qualcosa di tollerato per altri fini e diviene espressione di pienezza in cui uomo e donna, cercano insieme il bene personale e comune donandosi reciprocamente l’uno all’altro.

L’impulso sessuale e il desiderio, venivano così ad essere pienamente riabilitati perché visti come un bene, un dono da amministrare in quanto capaci di condurre al dono di sé ad un altro essere umano. Ed anche la castità più che una serie di divieti tornava ad esprimere l’integrità dell’amore che rende possibile amare nella verità l’altra persona.

Tanto altro varrebbe la pena dire sulla ricchezza di questo testo, ma non c’è qui lo spazio. Vi invitiamo però a riscoprire direttamente la bellezza di queste pagine, dense ma straordinarie e illuminanti sotto il profilo della morale sessuale, affinché ciascuno possa trovare una luce per la sua personale esperienza.

È curioso scoprire come quest’opera non subì alcuna censura ad opera della polizia segreta del regime, anzi nel rapporto del funzionario incaricato alla verifica, ci raccontava Ludmiła Grygiel, traspariva una certa ammirazione, a conferma del fatto che il fascino della verità sull’amore è in grado di parlare al cuore di tutti, anche dei non credenti.

Era il 1960 quando Amore e Responsabilità veniva pubblicato la prima volta e con questo testo iniziava una delle due rivoluzioni sessuali più importanti del secolo scorso: una è stata la rivoluzione sessuale del ’68 quella del sesso libero e della contestazione al perbenismo borghese; l’altra mite e silenziosa è quella della teologia del corpo, evoluzione matura di queste prime riflessioni di Wojtyła su amore e sessualità.

La prima la conosciamo tutti, la seconda invece è ancora un tesoro da scoprire ed accogliere.

L’amore a teatro: LA BOTTEGA DELL’OREFICE

La vita di Giovanni Paolo II è stata così ricca e il suo pontificato così lungo, che a ben vedere ogni anno è possibile rintracciare qualche anniversario, in quest’ambito però il 2020 rappresenta senza dubbio qualcosa di particolarmente significativo.

Quest’anno infatti ricorre il centesimo anniversario della sua nascita di cui abbiamo già parlato ( qui ), ma ricorre anche il 60° anniversario di pubblicazione di due suoi scritti straordinari: Amore e Responsabilità e La bottega dell’orefice.

Non possiamo allora trattenerci dallo scrivere qualcosa su queste opere con la speranza che a qualcuno venga la voglia di prenderle o riprenderle tra le mani. Oggi vogliamo parlarvi de La bottega dell’orefice, un’opera teatrale pubblicata per la prima volta nel dicembre del 1960 sul mensile cattolico di Cracovia «Znak» sotto lo pseudonimo di Andrzej Jawién.

Se non l’avete ancora letto o visto a teatro, tranquilli, non vogliamo spoilerarvi il finale né i colpi di scena – anche perché più della trama sono dialoghi e monologhi ad essere il cuore dell’opera – desideriamo semplicemente condividervi cosa l’ha resa così preziosa per noi due al di là delle profonde meditazioni e dei celebri aforismi che da essa vengono attinti.

Prima di svelarvi l’arcano però, occorre una piccola overview del testo.

Si tratta di un dramma teatrale e allo stesso tempo di una profonda meditazione sull’amore e sul sacramento del matrimonio. L’opera infatti è costruita su tre atti che sono la storia di tre coppie, la prima di queste coppie sono Teresa e Andrea, due innamorati che riflettono sulla scelta di sposarsi. Poi vi sono Stefano ed Anna il cui matrimonio si è lentamente raffreddato: per Stefano l’amore pare qualcosa di acquisito una volta per sempre, mentre Anna invece continua a sognare un amore idealizzato e non si rassegna all’indifferenza di Stefano fino ad arrivare sul punto di tradirlo. Infine, nel terzo atto, incontriamo l’ultima coppia: due fidanzati, che curiosamente sono proprio i figli delle due coppie precedenti, Cristoforo infatti è figlio di Teresa ed Andrea e Monica figlia di Stefano ed Anna. Da loro nasce un bellissimo dialogo sull’amore nascente segnato dalla sofferenza legata al peso delle rispettive eredità famigliari, ma anche dalla speranza di un amore redento.

A rendere speciale quest’opera è senza dubbio l’esperienza di vita di cui è imbevuta, basti pensare che molti amici che frequentavano Wojtyła nell’ambiente di Cracovia, ritrovarono in essa tratti di dialoghi e riflessioni scambiate col giovane don Karol che allora amavano chiamare fraternamente wujek ovvero «zio».

Noi abbiamo scoperto quest’opera circa una decina di anni fa dopo aver iniziato gli studi all’Istituto Giovanni Paolo II di Roma. Eravamo sposati da pochissimo, ancora carichi di meraviglia nel contemplare come le nostre storie e le nostre strade, seppur molto diverse, avessero finito inaspettatamente per convergere, come se qualcuno avesse guidato e custodito il nostro amore. E proprio per questo, abbiamo trovato nei dialoghi tra Teresa ed Andrea, luci e assonanze con la nostra storia.

In questo primo atto troviamo la scena in cui Andrea chiede a Teresa di sposarla, o meglio le chiede: «vuoi essere la compagna della mia vita?». È curioso notare come, di fronte a questa svolta, il pensiero di entrambi affonda nella memoria e corre improvvisamente ad alcuni momenti chiave della loro storia, che ora inaspettatamente, possono riconoscere come preparatori a questo “sì”.

Andrea, che ha finalmente maturato la decisione di dichiararsi, guarda dritto davanti a sé come a scrutare la strada da percorrere insieme, mentre in realtà sta ripensando alla sua storia, al suo cammino di maturazione, accorgendosi come il tempo trascorso prima di giungere a Teresa, non sia stato un tempo perso, quanto un tempo fondamentale per orientarsi e comprendere.

Egli ha sempre avvertito che qualcosa di Teresa concordava con la sua personalità e ci pensava spesso, ma per lungo tempo si era illuso che l’amore fosse soltanto una passione e pertanto l’aveva cercato nel fascino e nella bellezza percepibile con i sensi, ma in questi incontri aveva sempre finito per trovare «isole deserte». Aveva allora compreso che esiste un’altra bellezza, qualcosa che ha a che fare con la ragione ed aveva finito per costruirsi un alter ego ideale, su misura: una ragazza affascinante purché anche intelligente, con i suoi stessi valori ed interessi. Ma ancora una volta, nonostante le ragazze corrispondessero al suo identikit, l’aspettativa si frantumava contro un’assenza, mancava qualcosa. Ma che cosa? E soprattutto rispetto a che cosa? Andrea si era così lentamente reso conto che nel suo cuore esisteva già un termine di paragone per tutte queste ragazze: Teresa. Proprio quella Teresa così diversa da lui, così lontana eppur così intima.

Di fronte alla dichiarazione di Andrea, la memoria di Teresa corre invece ad una gita sulle montagne di alcuni anni prima. Erano con un affiatato gruppo di amici, Teresa sapeva che Andrea era attratto da un’altra ragazza, ma non voleva lasciarsi toccare dalla cosa. Complice però un imprevisto lungo il percorso, Teresa aveva improvvisamente scorto Andrea sotto una luce di verità e ciò le aveva suscitato un’inquietudine ancora più profonda della gelosia: Andrea non era il principe azzurro coraggioso e sensibile che sognava, anche lui portava in sé contrasti e fragilità. L’entusiasmo e la leggerezza giovanile di Teresa si erano scontrati per la prima volta con il peso della vita, quella notte tutto intorno a lei sembrava perfetto eppure il suo cuore era profondamente turbato.

Questa confidenza di Teresa, accende una nuova luce nella storia di Andrea che sperimenta lo stupore di essere entrato ancor più intimamente nel mondo di lei e si lascia commuovere:

«come mi passò vicino quella notte!

Mi investì quasi con tutta la sua immaginazione

e con quella sofferenza nascosta

che allora non volevo intuire

e oggi sono pronto a considerare un bene comune.

[…] E lo so – non posso più camminare solo

so che non ho più nulla da cercare.

Tremo solamente pensando come era facile

perderla, allora»

L’amore che si rivela, illumina di senso le loro storie, ed entrambi scorgono in sottofondo l’opera di qualcun altro…  sanno bene che non è stato Andrea a conquistare Teresa, né Teresa a sedurre Andrea, ma Qualcuno, negli anni, li ha sapientemente condotti l‘uno all’altro. Non a caso, nel proseguo dell‘atto, Andrea descrive, in modo particolareggiato, l’incontro del suo sguardo con quello dell‘orefice che rappresenta la figura di Dio, un incontro dal profondo contenuto simbolico:

«il suo sguardo era insieme mite e penetrante. […] ci ha infilato gli anelli al dito […] Ho avuto l’impressione che con il suo sguardo cercasse i nostri cuori per immergersi nel loro passato. […] Ad un certo punto i nostri sguardi si sono incontrati – ho avuto allora la sensazione che Lui non solo stesse sondando i nostri cuori, ma che cercasse di versarvi dentro qualcosa. Ci siamo trovati al livello del Suo sguardo, anzi al livello della Sua vita. La nostra intera esistenza stava davanti a Lui».

Anche noi, un po’ come Teresa ed Andrea, abbiamo potuto riconoscere nella nostra storia questa mano e questo sguardo: «Doveva essere così». Grazie GP2 per quest’opera che ci ha proiettato ancora più a fondo in questo mistero. Davvero l’amore ha vinto ogni perplessità, l’amore determina il futuro.

Cento anni fa: Magnificat

Ricorrono oggi i 100 anni della nascita di un uomo straordinario: Karol Wojtyła, a cui Dio, come fu per Pietro, ha posto un nome nuovo: Giovanni Paolo II. Un uomo come noi, che ci ha insegnato che è possibile essere straordinari semplicemente accogliendo la paternità di Dio e la maternità di Maria.

Oggi vogliamo ricordare la sua nascita con alcuni versi di una sua poesia giovanile che celebra la vita, scritta tra la primavera e l’estate del 1939.

Il titolo è Magnificat, Karol la scrisse a diciannove anni, da giovane universitario, quando agli occhi del mondo “non era ancora nessuno”, ma agli occhi di Dio Padre era già un capolavoro.

In questi versi, il giovane Karol, come la Madre di Dio, prova a cantare il suo Magnificat, quasi stesse anche lui, come Maria, contemplando germogliare in sé l’opera di Dio.

Stupiscono queste sue parole appassionate di vita pensando al mistero della sofferenza che, nonostante la giovane età, lo ha già toccato più volte nel profondo, privandolo prima della madre (a soli nove anni) e poi del fratello maggiore.

Nella poesia risuona questo profondo amore per la vita, tanta gratitudine e fiducia in Dio ed appare fortissimo il contrasto con tutto ciò che da lì a poco si abbatterà su di lui con la seconda guerra mondiale e la perdita del padre nel ‘41. Eppure, oggi,  alla luce di tutta la sua vita straordinaria, in queste parole possiamo intravedere come una visione, un presentimento di elezione, egli lo definisce un «silenzioso presagio».

Non può non sorprendere, ad esempio, il passaggio «Esalta anima mia, Colui che ha gettato sulle mie spalle il velluto ed il raso sovrano», pensando al fatto che quaranta anni dopo, neoeletto papa, Wojtyła si affaccerà dalla loggia di San Pietro indossando la tipica mantellina del papa (la mozzetta) di raso rosso, colore che testimonia il sangue di Cristo Re versato per l’umanità.  

Lasciamoci allora toccare dalla melodia e dal contenuto profondo di queste parole e in questo speciale anniversario chiediamo con tutto il cuore la sua intercessione per un cuore da mistici come il suo.

– – –

Esalta, anima mia, la gloria del Signore,

Padre d’immensa Poesia – così buono

Egli ha cinto la mia giovinezza di un ritmo stupendo,

ha forgiato il mio canto sopra un’incudine di quercia.

In te risuoni, anima mia, la gloria del tuo Signore

Artefice dell’angelica sapienza – Artefice clemente.

Ecco, riempio fino all’orlo il calice col succo della vite

Nel Tuo convito celeste – io, il Tuo servo orante –

grato, perché misteriosamente rendesti angelica

la mia giovinezza,

perché da un tronco di tiglio scolpisti una forma robusta.

Tu sei il più stupendo, onnipotente Intagliatore di santi

– la mia strada è fitta di betulle, fitta di querce –

Ecco, io sono la terra dei campi, sono un maggese assolato,

ecco, io sono un giovane crinale roccioso dei Tatra.

Benedico la Tua semina a levante e a ponente –

Signore, semina generosamente la Tua terra

che diventi un campo di segale, un folto di abeti

la mia giovinezza sospinta dalla nostalgia, dalla vita.

La mia felicità – grande mistero – Ti esalti

perché hai dilatato il mio petto in un canto primordiale,

perché hai permesso al mio volto di tuffarsi nell’azzurro,

perché hai fatto piovere nelle mie corde la melodia

e in questa melodia Ti sei svelato in visione –

attraverso il Cristo.

[…]

Esalta anima mia, il Signore, per un silenzioso presagio,

per la primavera echeggiante di gotica nostalgia,

per l’ardente giovinezza – il calice inebriante di vino

per l’autunno che ha sembianza di stoppie tristi e di erica.

EsaltarLo per la poesia – per la gioia e il dolore!

– Gioia di dominare la terra, il cielo e l’oro,

perché nelle tue parole s’incarna la delizia e l’ardore delle generazioni,

perché Tu cogli questa maturità  che Ti si stende davanti.

Dolore – la tristezza serale dell’indicibile

quando la Bellezza ci avvolge in un’onda d’estasi.

[…]

E mi sento un angelo caduto –

una statua sul pietrame – sul piedistallo di marmo:

ma tu alitasti nostalgia nella statua e nello slancio delle braccia,

così si solleva ed anela – uno di questi angeli io sono.

E ancora Ti esalto perché Tu sei l’approdo,

la ricompensa di ogni canto – il giorno del sacro pensiero –

e la gioia echeggiante dell’inno materno,

il silenzioso compimento della parola – Sei il culmine, Eli!

Sii lodato, Padre, per la tristezza dell’angelo,

per la lotta tra il canto e la menzogna, il combattimento ispirato

dell’anima –

Tu annulla in noi l’amore per la parola

E spezza la forma che, come un uomo vano, si gonfia.

Cammino sui tuoi sentieri – io un trovatore slavo –

[…]

Sii benedetto o canto tra tutti i canti!

Sii benedetta, semente della mia anima e della luce!

Esalta anima mia, Colui che ha gettato sulle mie spalle

il velluto ed il raso sovrano.

Benedetto è l’intagliatore di santi, Slavo e profeta

Abbi pietà – io canto come un pubblicano ispirato –

Esalta, anima mia, con il canto e l’umiltà

Il Tuo Signore, con l’inno: Santo, Santo, Santo!

Il canto, ecco, si unifica : Poesia – Poesia!

– il grano anela come l’anima mia che soffre insaziabile –

– che i miei sentieri si stendano all’ombra di querce e di betulle,

che la mia giovane messe sia gradita al Signore.

Libro slavo di nostalgie! Echeggia sui confini

come squilli degli ottoni nei cori di risurrezione,

con vergine canto sacro, con una poesia reverente

e con l’inno dell’Uomo – Magnificat di Dio.

L’anima nostra magnifica il Signore per il dono della tua vita caro Karol .

10 cose che ho imparato nei primi 10 anni di matrimonio

Il 15 giugno abbiamo fatto una bellissima festa per festeggiare i nostri primi 10 anni di matrimonio e abbiamo cercato di tirare un po’ le somme per ricordarci ciò che è importante per i prossimi 10 anni! Di seguito il mio il punto di vista.

1) Non posso cambiare mio marito, ma lui è cambiato lo stesso!

I primi anni di matrimonio, accanto all’entusiasmo per le cose nuove (che bello! vado a fare una lavatrice con la nostra nuova lavatrice nella nostra nuova casa!) e per la vita quotidiana insieme, ci siamo presto accorti che la diversità di idee, aspettative, modi di fare e di pensare, di agire e di reagire (tutto insomma!) ci portavano a stare molto scomodi insieme, a farci soffrire per apparenti banalità. Ovviamente il problema non era tanto scegliere un tipo di mensola piuttosto che un’altro, quanto invece (questo lo abbiamo capito dopo) non sentirci ascoltati e accolti dall’altro. Quanto avrei voluto, in quei momenti, che Tommy fosse diverso, e lui altrettanto evidentemente!

La cosa è bella è che piano piano piano (vedi punto 9) ci siamo ritrovati cambiati, più capaci di stare in relazione tra noi, più attenti all’altro, più disponibili all’ascolto e al dialogo senza fucile già puntato preventivamente contro l’altro.

Non si tratta di magia, ma di disponibilità a mettersi in discussione, in cammino, e tanto lavoro su di sé, spirituale e umano.

Ah, per non destare fraintendimenti: ciò non significa che siamo diventati uguali! Anzi, sempre più differenti, ma quelle differenze non erano più un problema, anzi una risorsa e una pienezza per la nostra coppia.

2) La sessualità ha bisogno di tempo

Questo è un tema molto ampio, che tratteremo sicuramente in modo più approfondito nei suoi tanti aspetti in altri articoli. Qui basti dire che, visto che la nostra vita sessuale è iniziata con la nostra vita matrimoniale, abbiamo dovuto conoscerci anche sotto questo punto di vista. E come la nostra relazione si è approfondita man mano in questi 10 anni, di pari passo così è stato anche per la nostra intimità fisica. Sembra scontato, ma sappiamo che per tante coppie la sessualità è un problema, e purtroppo se ne parla ancora molto poco. Un piccolo segreto, scontato se volete ma neanche tanto, è questo: l’intimità fisica cresce in funzione dell’intimità della relazione.

3) Dai bisogni inconsapevoli alle scelte consapevoli

Quanto mi ha fatto soffrire vedere che quella che pensavo fosse una scelta d’amore, recava in sé, oltre a questo, tanti miei bisogni (parlo dal mio punto di vista, ma ciò riguarda entrambi in modo  più o meno importante) di cui, a 22 anni, età in cui mi sono sposata, non ero minimamente consapevole. Vedere quello che c’era dietro alla facciata di “coppia modello”, è stato piuttosto doloroso, intuire che amare è una cosa diversa da quello che credevo, altrettanto doloroso.

Credo che alla maggior parte delle coppie possa succedere questo, in modo più o meno traumatico e più o meno “patologico”. Dopo questo “shock” iniziale, è stato fondamentale fare memoria della storia di Dio con noi, come singoli e come coppia. Lui non poteva essersi sbagliato. Così su una nuova fiducia, è stato importante ri-scegliere, questa volta in modo davvero consapevole, il nostro matrimonio, ma soprattutto fidarci di Dio che era in mezzo a noi e ci teneva per mano.

4) La fecondità è aderire al progetto di Dio per la nostra coppia

Fecondità. Parola tanto odiata e tanto amata. Non avendo figli, i primi anni di matrimonio, ma già al corso prematrimoniale, la parola fecondità faceva “rima” con “piano B se le cose non funzionano bene”. Quanto odiavo questo concetto: c’è la fertilità, poi per chi non ha figli c’è la fecondità. Mi faceva proprio arrabbiare. Anche questo è un argomento di vita vissuta molto importante, profondo, ampio, difficile. Troppa roba per condensarla in poche righe. Quello che voglio dire per ora, qui, è questo: ogni coppia è chiamata ad essere feconda, se no, anche se ha 2,3,4,5 figli, rimane in un certo senso “sterile”. La fecondità è aderire al progetto di Dio per la nostra coppia. Fecondità è lasciare lo spazio a Dio di agire, assecondare lo Spirito Santo, essere come le pale eoliche che si lasciano attraversare del vento dello Spirito e producono “energia”, cioè vita, cioè quello che Dio vuole generare con noi (ringrazio mio papà che mi ha regalato questa immagine). Chiara Corbella ed Enrico Petrillo lo testimoniano: quanta vita, quanti figli partoriti alla fede e tanto altro, attraverso la loro storia vissuta con Dio.

5) Ci sono momenti molto difficili in cui butteresti tutto all’aria.. non farlo perché, semplicemente, ne seguiranno di molto belli, anche se ti sembra impossibile

Questo è più un mantra di speranza da ricordarsi, portare al cuore e alla mente, per i momenti più difficili. Il Signore fa nuove tutte le cose, chiedi a Lui, arrabbiati, disperati, supplicaLo: non vede l’ora di poterti liberare dalle tue prigioni e dai tuoi sepolcri.

6) Alcune cose è meglio non farle insieme, altre, o insieme o niente.

Su questo punto ci si intende presto con degli esempi. Cucinare ad esempio, è un ambito nel quale io e mio marito agiamo in modo molto diverso per cui insieme è un po’ difficile. Per cui o cucino io e lui non si intromette, o viceversa. Ma questo significa anche che è bene conservare un proprio spazio, fare delle esperienze anche da soli, coltivare la propria differenza per arricchirsi e arricchire l’altro.

Ci sono altre cose poi, che abbiamo imparato che è meglio fare insieme, per il bene della coppia ma anche degli altri. Ad esempio: vi chiedono un servizio in parrocchia? Farlo come singolo o farlo come coppia è tutta un’altra cosa. Se lo fate come coppia, mettete in gioco anche la vostra relazione, il vostro sacramento, e ciò arricchisce enormemente di più il vostro contributo e la vostra “missione”.  Ed è pure una cura preventiva da protagonismi personali, dall’impegno più fuori casa che dentro casa, dall’essere coinvolti in dinamiche sterili e non equilibrate anche rispetto alla propria coppia e famiglia.

7) Meglio non fare troppi progetti ma godere di ciò che la vita ci offre

Anche questo è un mantra da ricordare. La vita che ti viene data da vivere è ora. Troppo tardi quando sarai in pensione, troppo tardi forse anche l’anno prossimo. Ci sono delle possibilità, opportunità, che la vita ti offre ora. Coglierle al volo e goderne è accogliere i doni che Dio vuole farci oggi. Per questo non bisogna programmare troppo: se si è troppo impegnati nel seguire il proprio programma si rischia di non cogliere ciò che di bello e alternativo ci viene messo davanti.

8) Le relazioni, alcune in particolare, sono il bene più prezioso

Non sono quella che socializza facilmente. Mio marito va molto meglio sotto questo punto di vista. Una delle cose più importanti che abbiamo capito in questi 10 anni è che Dio si è manifestato tante volte attraverso le persone che ci ha messo a fianco. Le relazioni in cui si può parlare di sé, delle proprie fatiche e ferite, in cui ci si sostiene a vicenda, si condivide e si cresce nella comunione sono un grande dono di Dio, più prezioso dell’oro, perché non si possono comprare ma sono solo un dono.

9) Non bisogna avere fretta, lo Spirito è maestro delle lente maturazioni

Tante volte ci siamo chiesti cosa Dio desideri da noi e cosa noi con Lui. La risposta non l’abbiamo ancora, però non possiamo non vedere quanto la nostra vita sia cambiata in questi 10 anni. Per chi non ci conosce bene, tutto sembra rimasto uguale: stesso paese, stessa casa, stesso lavoro (almeno uno dei due), nessun figlio ecc… quante cose invece noi e chi ci conosce bene sa che sono cambiate! Dentro di noi, nella nostra relazione, nel nostro rapporto con Dio, nelle nostre amicizie, in quello che facciamo, anche se non sbandierato da nessuna parte. Nella fede non ci sono soluzioni e risposte pronte, bisogna solo mettersi in cammino, in ascolto, e in gioco, e piano piano, piano piano, piano piano, lo Spirito crea e ti fa maturare, e il seme germoglia.

10) Più ti muovi, più ti arricchisci

In questi 10 anni le nostre automobili hanno percorso tantissimi km. Incontri, esperienze, amici da vedere, testimonianze da fare, relazioni, colloqui, esercizi spirituali, seminari, cene. I nostri familiari sanno bene che siamo sempre in giro e si sono rassegnati sia a badare alla nostra gatta mentre siamo via, sia al fatto che spesso manchiamo ai tradizionali pranzi della domenica e affini. È vero, spesso anche io mi sono lamentata di questo essere spesso in macchina, o in treno o anche aereo, ma la verità è che ogni tragitto è stato sempre ricompensato. Quanto ringrazio il Signore di non avermi lasciato nelle mie comodità e nei miei cliché, del sabato a fare la spesa e della domenica a pranzo o dai miei o dai suoceri, con un’alternanza rigorosa.

Lo ringrazio perché ha allargato i nostri orizzonti, ci ha regalato amicizie bellissime, ci ha fatto sentire la sua presenza in mille modi, ci sta guarendo e salvando piano piano.

Questo non significa che debba essere così per tutti, però è vero che più allarghi i tuoi orizzonti, più il tuo mondo diventa ricco.

Ora siamo curiosi di scoprire e vivere ciò che ci riserveranno i prossimi 10 anni.