La mia vita con il porno

Buongiorno a tutti, mi presento: mi chiamo Marco, ho 27 anni e vivo a Milano. Tommaso e Giulia mi hanno invitato a scrivere la mia testimonianza sulla mia dipendenza dalla pornografia durata fino all’anno scorso, e ho accettato con piacere. Spero che in questo racconto qualcuno possa riconoscersi e, riguardando un po’ la sua vita, fare la scelta di intraprendere un percorso di disintossicazione dal mondo del porno, ne vale davvero la pena.

Gli inizi

Il mio primo incontro con i porno fu a 10 anni, ero a casa del mio migliore amico con altri coetanei quella sera per giocare un po’ con la play e mangiare una pizza insieme. Eravamo proprio bambini, ricordo che non avevo mai neanche pensato a stare insieme a una ragazza, eravamo ancora nella fase dove il gruppo dei maschi era separato da quello delle femmine. Era tuttavia un tempo in cui sorgevano i primi cellulari con una memoria sufficientemente grande da poter contenere qualche video o immagine; ricordo che la grande rivoluzione era scambiarsi file con il Bluetooth, altro che il cloud o i vari drive condivisi di adesso. I video che andavano per la maggiore erano quelli di Dragon Ball con le canzoni dei Linkin park, video di tutto rispetto, poi però hanno iniziato ad arrivare appunto i porno. “2×1” era il titolo del primo quella sera: il due stava per due uomini neri e l’uno per una ragazza bianca. Fu un video molto violento, di quelli che non ho mai più riguardato. Ne hanno fatto partire un secondo, di cui però preferisco non farne il nome, ma mi sono rifiutato di vederlo.

Non sapevo cosa fosse l’intimità tra persone adulte: mia madre mi aveva fatto solo una distinzione tra l’amore e il sesso per tentare di darmi una morale su qualche immagine di nudo non prevista nei film della sera in famiglia, mai avrei pensato a qualcosa di così degradante. Faccio fatica a descrivere l’emozione provata davanti a quel primo video: avevo una visione della donna come un qualcosa di prezioso, come un fiore da proteggere, non una cosa da calpestare, schiacciare e frantumare a più non posso. E quello che più facevo fatica a comprendere era la volontaria partecipazione di quella bellissima ragazza a farsi trattare così: non potevo credere che una ragazza volesse qualcosa che a me appariva essere uno stupro di gruppo filmato. Quel che avevo visto era tuttavia il sorriso e la compiacenza – che a tratti diventava lacrime e disapprovazione- di quella creatura, che non credevo vero e possibile fino in fondo. Al tempo non potevo sapere che i pornoattori fanno uso di droga per restare nel circolo a fare ciò che fanno, e che c’è un tasso di suicidi non indifferente tra loro.
Inizio a fare domande ai miei amici, incredulo, e ciò che mi sento dire è: “Guarda che se non sai queste cose alle superiori vieni preso in giro”, oppure “Guarda che i bambini nascono così”…
…IO DUNQUE SONO USCITO DA QUESTO???
la frase “questo è amore” oscillava tra due significati: il primo con un punto di domanda finale e il secondo con un punto esclamativo.

Una volta tornato a casa ricordo di essere andato a letto sconvolto, mia madre mi vide profondamente turbato e mi chiese cosa avessi ma non volli risponderle, fino ad ora non sa ancora nulla di quella serata. Il tutto si salvò nella memoria sotto la categoria: “ciò che piace alle donne”, ma se da un lato volevo disperatamente che non fosse vero, dall’altro mi convincevo che quello era divenire adulti, ed era la realtà che doveva piacermi.
Leòn Festinger, uno psicologo che si occupò della pressione sociale che i gruppi di persone esercitano sugli altri, chiama questo tipo di contraddizioni mentali “dissonanze”, e afferma che, alla fine, la più forte tra le due, socialmente parlando, vince, ovvero diventa credenza su cui si basano future scelte. Questo meccanismo starebbe alla base dell’evidenza per cui una persona diventata membro di un gruppo mediante una iniziazione dolorosa è molto più devota al gruppo al contrario di una che non ha avuto una iniziazione di quel tipo.
Una volta riacquistato una sorta di equilibrio mentale, a inizio della pubertà sentii la necessità di guardare qualcosa su internet, nonostante tutto vedere una donna nuda aveva toccato le mie corde, e anche se non volevo rivedere video, qualche immagine soft magari potevo permettermela, e poi, perché no? non c’è nulla che può farmi del male, scelgo io infatti cosa guardare e cosa no. Iniziai dunque a cercare qualche immagine su internet, ma non conoscevo effettivamente il mondo del porno: scrivevo “tette”, o “donna nuda”, cliccavo su “immagini” di Google e guardavo cosa appariva; l’unico accesso a internet era però tramite il pc familiare, e subito venni scoperto da mio fratello che controllò la cronologia e lo disse a mia madre. Non potevo più rischiare tanto, e se poi mi scoprivano ancora? che figura ci facevo?
Continuai con la tv, sui canali 999 di sky, e piano piano scoprii da solo la masturbazione. La prima volta è stata come toccare il cielo con un dito e, per un ragazzino della mia età, un po’ bullizzato, senza grandi aspirazioni, con una precaria comunicazione con i propri genitori e non troppi amici era il paradiso davvero. Aspettavo che mamma uscisse, chiudevo le persiane del salotto e subito iniziavano i miei viaggi.
Scoprii poi che potevo farlo anche senza un video, bastava andare in bagno e immaginare, e potevo immaginarmi non solo le donnine di sky, ma anche quelle vere, e iniziai a fantasticare su di loro… dopo un po’ però notai che non mi soddisfaceva più fantasticare, avevo bisogno di altro. Nell’anno della mia cresima, a 13 anni, ricevetti il mio primo smartphone: l’IPhone 3g, scrivo smartphone perché prima di quel modello era complicato accedere ad internet, era poco fruibile l’esperienza, ma ora era tutto molto più facile. Una volta superata la paura di visitare un sito porno (sai, i virus), è iniziata la mia rovina.

La pornografia e cosa significa starci dentro

In un sito porno puoi trovare tutto ciò che desideri, esiste una regola tra i ragazzi, la regola 69, che recita: “Esiste una versione porno di ogni cosa.” Sì, è davvero così, e purtroppo anche io mi sono basato su di essa per stimolare la mia fantasia e provare piacere. Nei vari siti esistono moltissime categorie, dalle più soft alle più hard. Un ragazzino, anche se schifato dal degrado presente in quelle hard, non tarderà molto prima di ritrovarsi a cercare anche lui tra di esse e si stupirà di questo, garantito. Molti se non tutti si sorprendono di ciò che riescono a vedere (io in primis), si stupiscono di ciò che a un certo punto li eccita e, nonostante un po’ di schifo, ne vogliono di più. Il cervello infatti è fatto per ricercare quel di più, cosa necessaria per poter esplorare e vivere esperienze nuove, ma la pornografia è fatta per fornire tutto l’occorrente per soddisfare quella ricerca, e non lascia vie d’uscita per altro, satura ogni tentativo di aprirsi alla vita e nel tempo fa ripiegare interamente il cervello su di essa.
Già quando iniziai le superiori ricordo che le ragazze mi apparivano come pezzi di carne con cui potevo fare ciò che volevo: mi rifugiavo a farlo nella mia fantasia sì, a casa, dove ripetevo nella mia mente le scene che vedevo nei filmati, ma sognavo di farlo veramente nella realtà con qualcuna, “Non vedo l’ora”, mi dicevo. Appena vedevo una ragazza pensavo a come poteva essere nuda, o come poteva essere a fare sesso o altro, a quali perversioni le sarebbero piaciute, a quanto il loro seno era grosso, a quanto a me sarebbe piaciuto fare sesso con loro. Cercavo di categorizzarle prima consapevolmente e in modo piacevole, poi in modo sempre più automatico e disgustoso.

Nel tempo questo automatismo diviene pressante, ossessivo: mi si presentavano immagini anche con ragazze a cui volevo bene e non volevo pensare in certi modi o in certe scene. Queste erano costanti e non riuscivo a contrastarle, avevano carattere di intrusività, ed erano davvero una sofferenza: mi venivano anche con i familiari o bambine, e mi facevo davvero schifo. In psicologia si parla di generalizzazione, una operazione che il cervello esegue sui ricordi per avere degli schemi di comportamento anche in nuove situazioni, e quindi arrivare “preparati”..
Sapevo però che la masturbazione mi portava almeno una mezza giornata di libertà da questi pensieri intrusivi, e quindi iniziai a trovare il tempo per masturbarmi prima di un evento particolare che sapevo sarebbe stato stressante, così ho instaurato quel circolo vizioso che si chiama feedback positivo, dove la sostanza che ti porta il malessere diventa anche la cura. Utilizzavo questa ingegnosa tecnica di prevenzione anche per affrontare qualche festa o qualche appuntamento: quando mi guardavo un porno poi ero molto più sereno, tranquillo, sciolto nel parlare con le ragazze o stare in ambienti sociali, nulla mi toccava, era come avere i superpoteri.
Mi fa sempre specie pensare a un passo della Valtorta dove Gesù le parla di cos’è il peccato: “e il Male non voleva che lo conosceste, perché è frutto dolce al palato ma che, sceso col suo succo nel sangue, ne desta una febbre che uccide e produce arsione, per cui più si beve di quel suo succo mendace e più se ne ha sete. [17. La disubbidienza di Eva, e l’ubbidienza di Maria].

In quinta superiore

Arrivai in quinta superiore con ancora nessuna esperienza di fidanzamento alle spalle. Conobbi una ragazza di scienze sociali e mi ci trovai davvero in sintonia. Iniziai con lei a fare delle lunghe camminate al pomeriggio e condividevo davvero tanto, dalle cose più superficiali quali “com’è andata la giornata” alle cose più profonde, esistenziali della vita, come “c’è un senso nell’amare?”. Nonostante tutte le fantasie pornografiche che inevitabilmente mi venivano su di lei, cercavo in tutti i modi di evitarle per vederla nella sua purezza: aveva un faccino rotondo, carino, ed era dolce con me. Tornai pian piano a pensare che forse quella visione fiabesca che avevo da bambino sull’amore potesse essere vera. Per 6 mesi uscii con lei in queste passeggiate, lei era alquanto popolare tra i ragazzi della mia età, molti miei amici erano meravigliati dall’intimità che avevo con lei, e avevo ormai riposto tante speranze, ma alla fatidica domanda di essere un qualcosa in più lei mi rifiutò. Non fu tanto quell’episodio che mi buttò giù ma l’aver scoperto poco dopo che quella bella, pura ragazza che pensavo potesse essere un esempio positivo del vero amore faceva sesso occasionale con più ragazzi nel periodo delle nostre passeggiate. Questo purtroppo spense definitivamente la speranza sul vero amore ai miei diciott’anni, anzi, fui confermato nel pensare alle ragazze come ricercatrici di avventure sessuali.
Iniziò un periodo di profondo sconforto e smarrimento e di lì a poco iniziava l’università. Mi sentivo profondamente tradito da quella ragazza, e allo stesso tempo non credevo nelle mie capacità di poter fidanzarmi effettivamente, pensavo che c’era qualcosa che non andava in me.

Iniziai una ricerca, non direttamente sui porno, quelli no, non li potevo mettere in discussione, sulle cause di questa mia incapacità, e incappai su dei siti / video che mi convinsero che non ne sapevo abbastanza di metodi di corteggiamento, in fondo era quindi solo una serie di metodologie da mettere in pratica per far colpo sulle ragazze. In giro sul web ce ne sono parecchi, forse ora molti di più, alcuni si fermano a parlare di tecniche da usare, altri, che ritengo più veri, parlano del confidare nelle proprie capacità, dell’importanza dell’autostima e dell’indipendenza da raggiungere con sé stessi e appunto una dipendenza non te lo permette. Non sono del tutto sbagliati in realtà, ma non sono esaustivi, specialmente riguardo ai porno. Ma aldilà della loro esaustività, con un mio amico iniziammo a mettere in pratica queste tecniche, convinti che bastassero per fare colpo, ma ovviamente non funzionarono; infatti o c’è davvero un cambio radicale, profondo, oppure mettere un coperchio su una pentola a pressione per fare sembrare che tutto vada bene non serve a nulla, e le ragazze lo percepiscono.
Dopo qualche mese di prove fallimentari con questo mio amico venimmo a conoscenza di qualche notizia in inglese che riguardava i porno e i suoi effetti collaterali. Scoprimmo l’esistenza di gruppi di auto-aiuto chiamati “Nofap movements”: gruppi di ragazzi per lo più giovani che si davano man forte online nel cercare di abbandonare la pornografia. Esisteva tra loro una sorta di sapere creato in modo disorganico, basato talvolta esclusivamente sulle testimonianze di chi aveva abbandonato la pornografia e la masturbazione e non su dati sperimentali, che recitava una sorta di elenco di superpoteri (proprio così li chiamavano, “superpowers”) che si ottenevano dall’abbandonare tali attività. Tra i superpoteri più ambiti c’era la capacità di parlare alle ragazze in scioltezza e non avere più paura di loro, ridurre l’ansia sociale, il riuscire a svegliarsi belli pimpanti la mattina, avere voglia di vivere e avere la forza per essere produttivi nella giornata e non rimandare gli impegni. Questi “superpoteri” sono stati poi tutti confermati in ambito scientifico: essi in realtà sono la normalità per un organismo sano.

Era la rivoluzione, iniziammo insieme a smettere di guardare i porno. Il primo giorno fu una meraviglia, ma il secondo giorno non resisto. Convinto del fatto che “doveva essere solo una coincidenza” non mi do per vinto e smetto un’altra volta, ma lo stesso giorno cado. E cado. E ancora. E ancora. Non riesco più a completare un giorno senza masturbarmi. Dopo qualche tempo (è difficile ammettere di essere dipendente da una sostanza) mi arrendo all’idea di essere dipendente.
L’incontrollabilità data dall’astinenza è forte, se non l’hai provata è davvero complicato fartelo intendere. Mette da parte ogni cosa, tutto viene saturato dalla sola voglia di estinguere quell’urgenza, ti porta a smettere qualsiasi attività che stai facendo e il tempo in cui ti droghi si dilata, spariscono le preoccupazioni, spariscono le persone e le scadenze, vieni assorbito dall’esperienza finché non arrivi all’orgasmo nel caso dei porno. Ricordo che in inverno il bagno vicino alle camere era freddo ma piuttosto di perdermi l’occasione di poter godere senza la preoccupazione che qualcuno avesse bisogno a sua volta del bagno, andavo in quello e anche se mi si gelavano le mani o altre parti del corpo, io continuavo ad andarci, e rimanevo lì finché non trovavo il video perfetto. Stavo anche fino a un ora al freddo invernale mezzo nudo senza riscaldamento pur di farmi “come si deve”.

La ragazza dell’università

Al primo anno di università c’è una ragazza che mi piace molto fisicamente. Dopo un po’ di tempo capii che mi piaceva anche di più e quindi iniziai a uscirci insieme. Iniziammo una relazione, che fu molto fisica, ero totalmente assorbito dal suo corpo e sulle porcate che potevano essere fatte insieme, come una sorta di bambola perfetta, lei acconsentiva a tutto e mi era sempre sembrato che condividesse l’amore alle porcate ma non ci siamo mai fermati a parlare di ciò, credo che tutti e due eravamo d’accordo mutuamente che le cose da fare in una relazione erano quelle, io le davo piacere e lei me ne dava. La cosa però dura solo 4 mesi fino al punto in cui la lascio io. Capii di essere ossessionato dal suo corpo e la pornografia: ero convinto che avere una relazione mi avrebbe fatto dimenticare la pornografia, ma dopo poco dal suo inizio ero tornato a masturbarmi sui porno. Mi faceva davvero schifo, sentivo di tradirla, ho provato in tutti i modi a non farlo, ma era più forte di me.
Una volta lessi un forum dove una psicologa, rispondendo a una signora il cui marito -sfogava il suo stress sulla pornografia per non sfogarlo su di lei perché le voleva bene-, scriveva che era giusto che il marito sfogasse il suo istinto in quella maniera, e lei doveva accettarlo così com’è, che è naturale. NO! non è naturale, è UNA MALATTIA!!! Forse qualche anno fa non era considerata una malattia, ma ora dire il contrario, davanti a tutte le evidenze scientifiche e tutte le testimonianze che ci sono in giro, è da idioti. Una volta passata la dipendenza posso assicurare che non hai più bisogno di agire in quel modo, e anzi, non hai più nessuna immagine, né nessuna idea malsana in testa, lo dico per esperienza, non per sentito dire.
È stata una mia responsabilità la fine di quella relazione. Quel meccanismo di ricerca di ragazze sempre nuove, reiterato ogni giorno da quando ormai avevo 13 anni, si è manifestato anche con lei. E io non avevo mai fatto nulla di concreto per evitarlo. La richiesta di questa urgenza era ormai più forte di quello che lei poteva darmi, e in una confusione generale tra pensieri quali – Qual è l’azione giusta? L’azione sbagliata?, il volerle bene ma anche percepire rifiuto nei suoi confronti, l’urgenza di voler cambiare ragazza ma anche non volerle fare del male – l’ho lasciata. Mi è sempre dispiaciuto tanto aver lasciato quella ragazza, nel tempo mi sono accorto che le volevo davvero bene e lei me ne voleva altrettanto. Penso che con lei avremo potuto creare qualcosa di davvero bello, ma non andò così.

Il periodo di disintossicazione.

In quel momento iniziò il periodo più travagliato della mia vita: il periodo di disintossicazione. Dai 20 ai 26 anni i miei tentativi continui di disintossicarmi scandivano le mie giornate: una volta avuta la mia dose iniziava un momento di calma fino al giorno seguente; lì iniziavo a stare male giorno dopo giorno, fino a che toccavo il fondo e dovevo assolutamente farmi un’altra dose per tornare a stare bene. Li chiamavo “i miei cicli”. il punto più alto era caratterizzato da una calma apparente, il punto più basso era come essere in preda agli istinti, pensieri inerenti al sesso che non mi lasciavano in pace, ansia e paura generalizzate e sbalzi di umore. In base a che fase ero dovevo stare attento a certe cose piuttosto che altre. Ricordo che quando ero dipendente tutto mi riportava il pensiero lì: ogni ragazza che mi passava in mente, che fosse una conoscente o amiche o persone viste per strada, ognuna me la immaginavo a fare sesso con qualcuno, o imitare scene che avevo visto. Vedere dei panni stesi fuori da una casa mi faceva pensare che all’interno di quella casa c’era una ragazza o una madre che poteva indossarli e che faceva sesso selvaggio con qualcuno, che forse a volte tradiva o che poteva farlo con me. Ogni tocco di ogni ragazza era interpretabile esclusivamente in una direzione, era difficile interpretarlo come un tocco amichevole. Dovevo dunque stare attento ai miei pensieri, a non auto-innescarmi lo stimolo con la fantasia, e in più dovevo evitare di guardare o soffermarmi su certe immagini.

Le regole autoimposte

Oltre a ciò avevo bisogno di regole per far fronte all’astinenza, formate nel corso dei 6 anni di recovery: mi sono tolto da tutti i social per evitare immagini implicite (Qualsiasi immagine di ragazze), sapevo per esempio che se dovevo andare in bagno il cellulare lo lasciavo fuori, dovevo stare attento a non fissarmi sul suono della mia cintura quando mi toglievo i pantaloni. Dovevo trovarmi qualcosa da fare quando i miei uscivano e rimanevo solo in casa o essere rapido a entrare e uscire dalla doccia. Non dovevo ritrovarmi nelle app che mi obbligavano a scorrere un feed infinito verso il basso. Non potevo guardare certi programmi o pubblicità, neanche di sfuggita. Evitavo certi discorsi o gruppi WhatsApp dove sapevo potevano postare video o immagini. Eppure, tutto questo non era ancora abbastanza anche se nel tempo i miei cicli arrivavano a durare anche una settimana.

Per farvi capire quanto può essere forte l’astinenza quando ho capito che era una cosa buona impedirmi di andare in internet con il cellulare mi sono comprato un telefono vecchio con i tasti grandi, ma in un momento di astinenza ho iniziato a usare il pc portatile. Allora ho messo dei blocchi al pc per impedirmi di andare sui siti porno ma in un altro momento di astinenza ho iniziato a guardare ragazze su Instagram, e una volta messi i blocchi ad Instagram sono arrivato a masturbarmi sulle copertine dei fumetti venduti da Amazon. Il mio cervello riusciva sempre a trovare un modo per stimolarsi, inventandoseli da zero se necessario. Capisco le persone dipendenti dalle droghe che arrivano a buttare via tutto lo stipendio o a rovinarsi la vita per avere la loro dose. Non mi sorprende che certe persone arrivino a sfogare la propria sessualità nel mondo reale con lo stupro. Una volta che parte l’astinenza è incontrollabile. Il serial killer Ted Bundy, nel suo dialogo con uno psicologo prima di essere condannato a morte, diceva esplicitamente tutto questo, di come ha iniziato con la pornografia e di come non riusciva a controllarsi nel fare ciò che faceva.

Affrontare la dipendenza da pornografia non è solo astinenza, ma anche fare i conti con la delusione e l’impotenza esperita ogni volta che si cade. I primi anni erano davvero difficili, mi scoraggiavo facilmente, non sapevo con chi condividere ciò perché tutti non la pensavano come a una dipendenza (forse nemmeno ora), mi sentivo solo in questo e allo stesso tempo non vedevo nessun passo in avanti, mi sembrava sempre di ripartire dall’inizio. Molti smettono proprio per questa lotta estenuante. Nei gruppi sulle app ho visto nel tempo davvero tanti ragazzi che uscivano dopo pochi giorni, o dopo un mese. Ci vuole impegno e dedizione, bisogna voler imparare su di sé, sulla propria condotta, e su come il cervello funziona. Bisogna creare molta consapevolezza per affrontare una dipendenza, ma non è impossibile, anzi, ci sono tante persone che ne sono uscite e che raccontano come la loro vita è cambiata.

Brain Buddy e l’esserne fuori

A settembre dell’anno scorso, dopo ormai 6 anni di tentativi scopro una app: Brainbuddy; una app a pagamento mensile con molte features per uscire dalla pornografia. Una tra queste, la più importante è la mindfulness, un modo per allontanare i pensieri negativi e rimanere nel presente. Ero scettico a pagare una quota mensile per disintossicarmi, ma mi aiutò sul serio. Grazie ad essa iniziai un faccio un periodo di prolungato di astinenza, cadendo una sola volta ad aprile, che continua fino ad oggi. È passato ormai più di un anno da quando ho smesso di guardare i porno, e sono cambiato totalmente.
Penso ora alla mia dipendenza come un sigillo posto sopra a tutte le difficoltà che mi portavo dietro. Una volta rimosso, il cammino non è stato semplice, personalmente ho avuto bisogno di una terapeuta sia durante che dopo, per riconnettermi in modo sano e normale alla realtà. In questo senso è un amplificatore di sofferenze già esistenti (1), “Un abisso attira un altro abisso” dice Madre Teresa di Calcutta.

Grazie all’impegno e all’aiuto sono guarito. Sono passato dall’essere una persona molto ansiosa ad essere molto sicuro di me. Il mio umore si è stabilizzato, prima era molto più altalenante e non riuscivo a tenerlo sotto controllo. La tristezza e la depressione se ne sono andate e hanno lasciato posto a calma e voglia di vivere. Non ho più i gusti pornografici di un tempo, non muoio più dietro a un seno grosso o a una donna matura, mi sembra che nonostante l’attrazione naturale ci sia, non c’è più quell’ossessione o quel “volere spasmodico” che tanti pensano sia caratteristico nell’uomo. Non ho più bisogno di forti stimoli per sentirmi in vita, sono contento di uscire con gli amici o di leggere un buon libro, non rimpiango per nulla quei momenti di astinenza o di piacere estremo.

In tutto questo non ho parlato del mio rapporto con Dio, ma lo ritengo il silenzioso artefice di tutta questa storia. Si è svolto tutto attraverso scelte autonome e libere, con persone in carne ed ossa che, chi più chi meno, mi hanno portato a dove sono ora, e penso che Dio agisca proprio così. Non penso che siano solo le grazie straordinarie da attribuirgli, penso che l’aiuto quotidiano delle persone e l’impegno personale nel volerlo seguire siano una grande grazia. Quando ho avuto la mia conversione a 20 anni essa mi ha spronato più di tutto a volerne uscire, e le preghiere fatte mi portavano a dire “Non può finire così, mi porterà a compimento”. Senza questa speranza continua non so se sarei stato capace di combattere questa battaglia durata sei anni. Però voglio essere chiaro: il tutto si è svolto nella realtà; uscire da una dipendenza implica prendersi la responsabilità di essa, di ogni azione a suo favore. Non basta pregare, non basta affidarsi totalmente, lo devi volere tu, e ci devi combattere tu. lo dico perché mi sono ritrovato a volte a dare troppa responsabilità a Dio, concedendomi qualche lussuria di troppo, nell’idea che “avrà pensato sicuramente a questa mia caduta, quindi sono nel giusto, basterà una confessione.” E così si prolunga la dipendenza, e Dio, più che essere colui a cui chiedere una mano diventa una scusa per concedersi le ricadute. Ho incontrato molti signori di 50, 60, anche 70 anni che scrivevano che ancora alla loro età non erano riusciti a disintossicarsi, e che la pornografia aveva rovinato tutta la loro vita, dal matrimonio alla relazione con i figli al lavoro. Non è qualcosa da sottovalutare, è una responsabilità da prendere tutta intera, una croce da caricarsi ben bene sulle spalle, solo così a un certo punto la si potrà abbandonare. L’ultima cosa di cui voglio parlare è la confessione. Per un grande periodo di tempo mi sono confessato ogni volta che cadevo, convinto, sotto consigli sbagliati, che ero sempre in peccato mortale a fare ciò. Una volta sentii invece un padre che mi disse che in realtà non ero davvero in peccato mortale per la mia volontà contraria a fare il peccato. Era giusto confessarsi ma non avevo scelto io di essere così e non riuscivo ad avere vero controllo sulla cosa. Mi tolse un grandissimo peso.

In conclusione voglio dire che uscire dalla pornografia si può, e tutto ciò che viene dopo la pornografia è vita. È vera vita. Se tu sei alle prese con questa dipendenza non avere paura, fatti aiutare, parlane con i tuoi amici o con la tua compagna, non tenerti il tuo piccolo segreto per te. impara dai tuoi comportamenti e metti in atto delle strategie per contrastarli. Scaricati una app come quella che ho scritto sopra, tutto ti sarà di aiuto. Non avere paura di ricaderci, è normale, soprattutto all’inizio. Il cervello ha bisogno di tempo per ricalibrarsi, anche dopo mesi di astinenza. Non credere alle menzogne che ti dice la testa. Rimani in astinenza per un bel periodo, da un anno a due anni e vedrai davvero i risultati. Non biasimarti e non scoraggiarti, siamo fragili, siamo umani, ma la speranza di rinascere c’è e io te lo sto testimoniando. Una volta usciti tutto prenderà colore, promesso.

(1) Nel libro “l’era della dopamina” di Anna Lembke, una psicologa apparsa anche nel documentario di Netflix “The social dilemma”, parla appunto del fatto che ogni dipendenza (ogni dipendenza, anche quella dalla cannabis) porta la persona a sperimentare sempre più ansia e sofferenza proprio perché amplifica i circuiti del piacere, o meglio, li rende meno sensibili al piacere. Se quindi c’è bisogno di uno stimolo maggiore per sentire piacere, basterà un piccolo stimolo per sentire dolore. Più amplifichiamo il piacere da una parte più amplifichiamo il dolore dall’altra.

Ho bisogno della tua Presenza

Franco Battiato si è spento poche settimane fa.

Noi non siamo grandi esperti di musica, ma riconosciamo che Battiato, da vero artista, con la sua musica ha saputo trovare il modo di portarci oltre, di aprirci al mistero, toccando le profondità dell’umano.

Un’ultima piacevole scoperta che abbiamo fatto nel suo repertorio e che vi invitiamo a riascoltare è L’ombra della luce dove l’intensità della musica si sposa ad una specie di supplica verso Dio: «Non abbandonarmi mai». In questa canzone si respira una pace profonda, si coglie la certezza di una presenza oltre tutte le cose, di una luce che dà senso e bellezza alla vita, si respira l’attesa di una beatitudine infinita di cui tutte le gioie dell’amore e dei sensi non sono altro che un lieve bagliore… appunto «l’ombra della luce».

Senza dubbio però il suo brano più significativo per noi resta E ti vengo a cercare, scoperto per caso quando ancora eravamo fidanzati, nel pieno del nostro innamoramento. (vedi foto)

Recentemente qualcuno ci ha chiesto di raccontare come è nata la nostra storia d’amore (un abbraccio ad Alberto e Alessandra) ed è curioso che nel fare memoria del nostro fidanzamento mi siano tornate alla mente proprio le parole di questa canzone.

Quando l’ho ascoltata per la prima volta circa sedici anni fa, per me è stato incredibile… sono rimasto a bocca aperta, perché mi sono sentito leggere dentro.

E ti vengo a cercare

Anche solo per vederti o parlare

Perché ho bisogno della tua presenza

Per capire meglio la mia essenza.

Sentivo dare voce e volto ai moti interiori del mio cuore, che aveva da poco scoperto di non riuscire più a fare a meno di Giulia. Sperimentavo come lei fosse misteriosamente entrata nel mio cuore, non riuscivo a non pensare a lei, non riuscivo a cambiare «l’oggetto dei miei desideri»… ed era bellissimo essere ricambiato.

Avevamo scoperto un legame profondo, inaspettato, qualcosa che ci univa intimamente, come condividessimo davvero le stesse radici, pensati insieme da sempre in un disegno più grande di noi.

Immersi nell’amore, ci cercavamo perché avevamo gustato come la presenza dell’altro fosse davvero in grado di svelarci di più a noi stessi: passavamo ore intere a parlare, ad ascoltarci, curiosi di scoprire cosa pensava l’altro, come vedeva il mondo, la vita, il futuro…  

Davanti a noi si spalancava un orizzonte di bellezza… come se fossimo avvolti in qualcosa di più grande.

L’amore con il suo mistero, con le sue «meccaniche divine», ci stava piano piano rivelando la nostra identità e il nostro destino: Io sono per te! Tu sei per me! Siamo un dono l’uno per l’altro. Insieme chiamati ad essere “uno” nell’amore.

Oggi, a distanza di molti anni, riascoltare questa canzone mi commuove ancora, ma non è semplice nostalgia del periodo inebriante dell’innamoramento, è piuttosto la viva meraviglia di fronte al mistero grande dell’amore.

Certo oggi è più forte la tentazione di dare l’altro per scontato, di pensare di conoscerlo, di non avere bisogno della sua presenza per capire meglio me stesso, eppure non posso non riconoscere come in questi anni la presenza di Giulia con la sua femminilità (e con tutte le differenze e le tensioni che ciò comporta) è stata un dono insostituibile per il mio cammino di uomo, uno dono di cui non posso e non voglio fare a meno.

In più, essendo oggi più consapevole di allora sul mistero racchiuso nel sacramento del matrimonio posso gustare ancora più profondamente quanto l’amore sia davvero «un’immagine divina» del mistero di Dio, per noi cristiani dell’amore del Padre rivelato in Cristo. Un amore che, ci stiamo accorgendo ogni giorno di più, non ha a che fare col romanticismo, bensì col mistero Pasquale, ovvero con il dono concreto e quotidiano della vita.

Ma ancora di più, oggi posso riconoscere in questa canzone non soltanto una stupenda celebrazione dell’amore umano, ma anche i tratti nitidi di una preghiera. Riesco a vedere queste parole non solo rivolte alla donna che amo, ma anche a Cristo, perché sento sempre più intimamente come solo la Sua presenza, può condurmi alla verità di me stesso.

Check-up del tuo fidanzamento in 5 punti

Abbiamo parlato da poco di fidanzamento, a proposito della castità, ma vogliamo tornare sull’argomento per una giovane amica che qualche tempo fa ci ha condiviso le fatiche che sta vivendo nella relazione con il suo ragazzo. Sono entrambi bravi ragazzi, hanno poco più di vent’anni, si vogliono bene e ragionano già di matrimonio, ma si stanno scontrando con le loro differenti sensibilità e attese e con la fisiologica fatica di armonizzarle.

Come andare incontro all’altro pur rimanendo sé stessi?

Se amare è mettere l’altro al primo posto, perché non mi sento la prima cosa per lui?

Come continuare ad amare senza rivendicazioni quando l’altro pare preso solo dalle sue cose?

Ascoltandola e vedendo le sue sincere lacrime, ci si è allargato il cuore e abbiamo rivisto in loro anche molte nostre difficoltà relazionali vissute durante il fidanzamento (ed anche dopo a dire il vero).

Difficoltà oggi in larga parte superate ma, come spesso accade, a caldo risulta complicato ricostruire i passaggi che ci hanno aiutato a cambiare prospettiva e a maturare e quindi, benché vorresti trovare la parola giusta da donare, ti ritrovi semplicemente ad offrire un po’ di ascolto fraterno.

Ora però, a mente fredda, qualche ispirazione ci è venuta, e quindi vogliamo provare di buttare giù alcuni pensieri sperando che questa amica (e non solo lei) possa trovare qualche spunto utile. Cinque pensieri essenziali per un piccolo check up del proprio fidanzamento.

1 – Amarsi non fa rima col capirsi al volo

Come prima cosa crediamo che occorra sfatare il mito dell’amore come intesa perfetta. Nel nostro immaginario è purtroppo viva (in modo più o meno consapevole) l’idea che aver trovato l’amore significhi aver trovato qualcuno con cui ci si capisce al volo, qualcuno capace di comprendermi, di anticipare i miei bisogni, di saziare la sete del mio cuore, il tutto in modo spontaneo, quasi che le parole siano un di più.

Purtroppo, o meglio per fortuna, non è così. Ne parlavamo anche commentando la canzone vedi cara di Guccini: come può un’altra persona limitata e fragile come noi essere in grado di saziare le attese del nostro cuore?

Il fatto che ci innamoriamo di una persona e che questa persona ricambi il nostro amore è un dono grandioso, ma non possiamo pensare che questa esperienza ci eviti l’incontro-scontro tra le due libertà in gioco. Ognuno di noi si trova di fronte all’altro con tutto il proprio bagaglio di storia famigliare, di ferite, paure, attese, capacità e desideri che necessariamente non può coincidere con quello dell’altro.

2 – È nella differenza il segreto della creatività

È proprio la differenza insita nel maschile e nel femminile e nelle diverse personalità che si nasconde il segreto di una relazione creativa e appassionante. È nella relazione con l’altro che mi conosco, e scopro sempre più profondamente i mei doni e i miei limiti, e tanti aspetti che non conoscevo di me, o su cui avevo una prospettiva parziale o distorta.

È sempre molto pericoloso entrare in una relazione presumendo di avere già capito tutto, di sapere già cosa è giusto e cosa non lo è senza permettere all’altro di scalfire le nostre convinzioni. Credo sia il tipico difetto dei “bravi ragazzi”, quelli impegnati, quelli osannati perché sempre brillanti, diligenti e disponibili. Lo dico per esperienza personale, io (Tommy) ero uno di questi “bravi ragazzi” e all’inizio del nostro fidanzamento ho fatto molto soffrire Giulia per il mio atteggiamento presuntuoso: ero convinto di essere il solo a sapere cosa fosse giusto per noi.

Solo quando qualcuno ci ha aiutato a capire un po’ meglio il dono nascosto nella nostra differenza, ho potuto iniziare ad aprire gli occhi su questa mia povertà. È stata una crisi feconda perché ho progressivamente capito che insieme è più bello e che al di là della mia e della sua prospettiva, ce n’era una nuova, più ampia e più vera: la nostra.

3 – È la meta a determinare il cammino

Altro elemento chiave è il significato che si sceglie di dare al tempo del fidanzamento. Oggi è largamente diffusa l’idea che avere il ragazzo o la ragazza significhi avere finalmente qualcuno che arriva a colmare la mia solitudine, qualcuno con cui “on demand” posso condividere le mie passioni e fare cose: vacanze, viaggi, serate, esperienze, sesso ecc. Insomma, una specie di app da attivare al bisogno.

Si tratta però di un equivoco drammatico, perché l’epicentro del fidanzamento non sono “io”, ma siamo “noi”: c’è una relazione da costruire! Il fidanzamento non è un comodo parcheggio, ma un cammino avventuroso da percorrere in due e, come per ogni cammino che si rispetti, è la meta a determinare il sentiero da percorrere e l’attrezzatura da portare.  È un po’ come quando vai a camminare in montagna e vuoi arrivare in vetta a 3000 metri: sai che devi portarti una certa attrezzatura e sai che devi scegliere la difficoltà del sentiero in base alle tue capacità.

La meta, il fine, del fidanzamento è il matrimonio. Lo so, può sembrare una cosa all’antica, ma a ben vedere c’è poco da girarci introno: nessuno inizia una storia d’amore pensando ad una data di scadenza, quando due si amano davvero, il desiderio è arrivare a condividere tutta la vita (per approfondire il matrimonio come vocazione potete leggere l’articolo: una valigia per due). Solo tenendo gli occhi fissi su questo orizzonte è possibile camminare senza perdere l’orientamento.

C’è però un altro elemento essenziale di questo cammino che non va sottovalutato: occorre trovare un compagno di viaggio, una guida. È ingenuo pensare che bastiamo noi due… serve qualcuno più esperto di noi, più avanti di noi nel cammino capace di darci le giuste dritte: un padre spirituale, una coppia di amici… Qualcuno che non essendo, come noi, coinvolto nelle dinamiche della relazione possa parlarci con franchezza per il nostro bene, sostenerci e correggerci.

4 – Camminare è per conoscersi

Se il fidanzamento è mettersi in cammino verso il matrimonio, allora più che “fare cose”, diventa cruciale avere a cuore il desiderio di conoscersi reciprocamente sempre più a fondo e di capire se effettivamente siamo chiamati a questo. È quindi un tempo prezioso ed insostituibile di verifica e di conoscenza, un cammino da fare senza paure, senza fretta, ma da percorrere con convinzione. E bisogna anche mettere in conto la possibilità che le nostre strade ad un certo punto si possano separare. Un conto però è comprenderlo a vent’anni quando ci si è volutamente dati un tempo per farlo, un altro conto è accorgersene a quaranta quando magari ci sono già in ballo dei figli e tanto altro.  

È per questo, che non sarebbero da contemplate frasi del tipo: «so che di questo con lui non posso parlare», oppure «di queste cose parleremo quando saremo sposati», o ancora «quando saremo sposati sarà diverso… ». Se non si investe in questo tempo, se non lo si sfrutta per confrontarsi su tutto (cose comode e meno comode) se non si parla di come ci si immagina la vita famigliare, i figli… se non si condividono in questa fase le aspettative sulla vita, sul lavoro, sulle relazioni, ecc… quando si pensa di farlo? Allora forse, converrebbe passare meno serate a sciropparsi serie tv e dedicare più di tempo al dialogo, magari aiutati da un buon libro o a fare insieme esperienze di crescita.

Certo il conoscersi è un processo che non potrà mai dirsi del tutto concluso: non si cesserà mai di conoscere più a fondo l’altro e se stessi anche dopo il matrimonio… ma partire bene, al momento giusto è fondamentale.

5 – Conoscersi è per amarsi

Giovanni Paolo II diceva che «L’amore non è una cosa che si può insegnare, ma è la cosa più importante da imparare». Si, l’amore è qualcosa da imparare perché anche quando le nostre intenzioni sono sincere, dobbiamo inevitabilmente scontrarci con due pesanti macigni: da un lato il fatto che istintivamente siamo tutti centrati su noi stessi e non ci viene spontaneo mettere davanti un’altra persona, dall’altro il fatto che per comunicare l’amore occorre sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda di qualcun altro radicalmente diverso da noi e la cosa non è affatto scontata.

Amare è un’arte a cui lasciarsi iniziare, perché non basta provare un certo sentimento per qualcuno, per poter dire di amarlo. L’amore è concreto, è fattivo, si coinvolge con l’altro… che i sentimenti ci siano è quasi ovvio, se no neanche ci si sarebbe imbarcati in una storia, molto meno ovvio è riuscire a comunicarsi l’amore.

Io posso scriverti decine di messaggini appassionati con emoticon e cuoricini, posso comporre per te dediche strappalacrime da postare sui social, ma se poi se non trovo il tempo per stare con te, per farti sentire importante, per interessarmi alla tua vita e farti spazio nella mia, ecc.… come posso dire di amarti?

Il fidanzamento è quasi un corso di lingue. Occorre l’umiltà di imparare il linguaggio dell’altro, cosa lo fa sentire amato e cosa no. È un po’ come quando facciamo un regalo a qualcuno e dobbiamo lasciare da parte i nostri gusti per provare di indovinare le attese del festeggiato al fine di trovare qualcosa che lo renda felice… lo stesso è con i linguaggi dell’amore. Ed è straordinario quando l’altro riesce a balbettare qualcosa per noi nella nostra “lingua”.

Ecco qui 5 pensieri o poco più… nessuna pretesa di esaurire l’argomento, solo il vivo desiderio che tra essi possa nascondersi una scintilla per la vita di questa cara amica e non solo.

Fidanzamento casto o bigotto?

Qualche sera fa abbiamo avuto il piacere di passare una serata con gli amici di CattOnerD e siamo stati talmente bene che ci sembrava di essere seduti insieme nello stesso pub per bere e chiacchierare in compagnia.  Il tema era la castità e ne abbiamo parlato in modo libero e spontaneo.

Grazie anche alle interazioni col pubblico prima, durante e dopo la diretta, abbiamo colto come questo tema sia tutt’altro che fuori moda, ma susciti ancora tanti interrogativi e curiosità.

Abbiamo pensato allora di raccogliere qui qualche idea che ci è particolarmente cara, sperando di essere più ordinati e chiari nell’esposizione, e anche un po’ più sintetici, dal momento che la diretta è durata più di due ore e non è detto che tutti abbiano voglia e tempo di riguardarsela (peccato perché c’è da divertirsi ma soprattutto c’è una chicca finale che non vi potete perdere!).

Inizieremo innanzitutto dal dire che cosa NON è la castità.

La castità non è il patentino del bravo cattolico, non è arrivare illibati al matrimonio, non è svalutare la sessualità e il piacere, e non è nemmeno un banale “astenersi”.

Ovvero, detto in altre parole, se abbiamo inteso finora la castità come una regola da applicare o come una “negazione” di una parte di noi, non siamo sulla strada giusta, anzi.

Ce ne siamo accorti anche noi che da fidanzati abbiamo cercato di seguire il “vademecum del perfetto fidanzamento cattolico” e quindi magari sì, se vogliamo guardare alla castità con uno sguardo superficiale, possiamo dire di essere riusciti ad arrivare al matrimonio con la spunta più o meno verde in merito a questo punto, peccato che avessimo capito poco o nulla del suo vero significato.

Conoscevamo e condividevamo le ragioni razionali per cui valeva la pena aspettare il matrimonio per donarsi totalmente (perché se no ti leghi e non sei libero di capire se è la persona per te, perché solo nel matrimonio ti giochi realmente la vita, ecc…), e abbiamo quindi cercato di fare del nostro meglio per stare nelle regole. Questo però ci faceva sentire “a posto”, “bravini”, innescando in noi un certo senso di superiorità e facendoci perdere di vista che il cuore della castità non è tanto rimandare il dono di sé nel corpo, quanto imparare con gradualità a donarsi totalmente senza maschere e ad accogliere totalmente l’altro per come è.

Ed è così che ci siamo ritrovati sposati con il pedigree in ordine, ma ancora molto immaturi, chiusi su noi stessi e carichi di pretese verso l’altro. E ci infastidiva vedere accanto a noi coppie probabilmente meno scrupolose sul piano sessuale, eppure molto più capaci di amarsi e rispettarsi di noi.

Insomma, non avevamo capito la cosa più importante, ovvero che la castità non è sottrattiva ma additiva: non è per privarci di qualcosa ma per aprirci a qualcosa di più grande, di più pieno, di più bello.

La castità in questo senso è l’arte di imparare ad amare nella verità: se non serve ad insegnarci ad amare non serve a nulla.

A che serve arrivare al matrimonio senza aver “consumato”, quando lui non disdegna sbirciatine più o meno prolungate a pornografia o simili, e quando lei si compiace delle attenzioni del collega? L’ipotetica coppia in questione forse metterà il “bollino castità” sulla tessera del bravo cattolico, ma non si può certo dire che ne abbia compreso il senso.

Ma anche la giovane coppietta che si impegna a non avere rapporti prematrimoniali, ma guarda al matrimonio come all’outlet del piacere in cui soddisfare ogni fantasia erotica, non pare essersi troppo sintonizzata sul mistero della castità.

Allo stesso modo anche la coppia che sceglie la castità (leggi astensione dai rapporti) perché fornisce un comodo alibi per non affrontare i loro problemi e le loro paure riguardanti la sessualità, non sta certo vivendo un fidanzamento casto.

Ciò che vogliamo dire è che non basta seguire determinate regole per essere casti. Per quanto tenaci ed intransigenti, non sarà il rispettare una regola che ci insegnerà ad amare. Le regole possono essere un ausilio, ma non dobbiamo dimenticare che in noi amare non è una cosa che viene spontanea. La nostra sessualità (e con essa la nostra capacità di amare) è ferita dagli effetti del peccato originale, ovvero dalla concupiscenza. In ognuno di noi, piaccia o meno, c’è come un’inclinazione a prendere più che a donare, a mettere davanti noi stessi prima degli altri, un’inclinazione che ci porta ad avere uno sguardo frammentato sull’altro.

Comprendiamo quindi che il problema vero non è tanto fare o non fare sesso prima del matrimonio, il problema vero è il nostro cuore (e quindi il nostro sguardo, i nostri pensieri ecc..) che ha un profondo bisogno di redenzione, di guarigione, di essere progressivamente liberato e purificato.

In questo senso, la castità non è solo un obiettivo da coltivare con le proprie scelte e con il proprio impegno, ma è soprattutto un dono di Dio, un dono da chiedere e da accogliere.

La castità allora è un cammino che dura tutta la vita, dove si intrecciano la nostra volontà e le nostre decisioni da una parte, e l’accoglienza della vita nuova dall’altra, la vita redenta che Cristo è venuto a portarci affinché un po’ alla volta il nostro cuore sia purificato, il nostro sguardo sia limpido, il nostro donarci sia sincero, il nostro amare sia “integro” e possiamo desiderare niente meno che il bene.

Oggi possiamo dirlo: riguardo alla castità non ci hanno convinto i ragionamenti, non ci hanno convinto le motivazioni per quanto comprensibili e “laiche”… riguardo alla castità, e oltretutto quando eravamo già sposati, ci hanno convinti la bellezza e la pienezza, quelle che abbiamo trovato nella teologia del corpo.

La castità infatti, svincolata da un discorso più ampio su chi sono io, che significato attribuisco alla mia sessualità, al mio corpo e alla mia vita, rischia di essere fatalmente fraintesa.

Insomma, la castità è un cammino che forse non finiremo mai di percorrere del tutto, quel cammino da cui però ciascuno di noi, qualsiasi sia il suo stato di vita, può sempre ripartire per imparare ad orientare il proprio desiderio sessuale verso l’autentica dignità della persona e la verità dell’amore, fino a dire: “Sono tutto per te”, “Sono tutta per te”, fino ad essere totalmente donato, anima e corpo.

Una valigia per due

Alcune settimane fa, nel preparare un incontro in streaming con un gruppo famiglie della nostra diocesi, abbiamo avuto occasione di riprendere in mano Amoris Laetitia.

Rileggendo alcuni passaggi, c’è stata una frase che questa volta ci è risuonata in modo particolare, facendoci ripensare alla nostra esperienza pre e post matrimoniale. Per maggiore chiarezza evito sintesi e riporto interamente il passaggio di papa Francesco:

«Il matrimonio è una vocazione, in quanto è una risposta alla specifica chiamata a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Pertanto, la decisione di sposarsi e di formare una famiglia dev’essere frutto di un discernimento vocazionale.» (AL, 72)

Di fronte a questo testo, anche per il fatto che si stava avvicinando il nostro anniversario, è sorta in noi questa domanda: ma noi, da fidanzati, quanto ne eravamo consapevoli?

Purtroppo la risposta è: molto molto poco!

A dire il vero, che il sacramento del matrimonio fosse una vocazione, lo avevamo sentito dire spesso, sia nella nostra formazione giovanile sia nel nostro fidanzamento.

Ma di fatto l’idea che ci avevano trasmesso era quella che la vocazione fosse, in fondo, l’alternativa tra due strade. Ovvero si trattasse di un orientamento personale o verso il matrimonio o verso la vita consacrata… Detta un po’ brutalmente, l’idea era: hai una ragazza, le vuoi bene e non hai mai sentito attrazione per la vita consacrata? Ok, allora la tua vocazione è il matrimonio.

Per cui, capita la direzione da prendere, subentravano tutti i percorsi per vivere bene il fidanzamento e prepararsi al matrimonio, percorsi che però, almeno nella nostra esperienza, hanno sempre avuto un’impronta di tipo morale-psicologico. I temi che andavano per la maggiore erano gli strumenti per crescere nella relazione: come impostare bene il dialogo di coppia, come fare posto a Dio con la preghiera, come vincere i nuclei di morte che possono insinuarsi nella coppia, come affrontare l’arrivo dei figli, come inserirsi nel proprio ambiente parrocchiale e famigliare, ecc…

Per carità, cose importanti, nessuno però ci aveva mai detto che la vocazione al Sacramento del Matrimonio è la risposta ad una chiamata di Cristo a vivere il nostro amore di coppia come segno imperfetto del suo amore per l’umanità.

L’amore, si sa, è un tema sempre controverso, alcuni amici non a caso lo definiscono “ingannevole”. Per quanto riguarda il Sacramento del matrimonio però, come attesta il passaggio di Amoris Laetitia da cui siamo partiti, non si parla genericamente di “volersi bene”, ma di un amore con un’impronta precisa: l’amore di Cristo per la Chiesa.

Come Cristo ha amato la Chiesa? Dando la sua vita per lei! È stato disposto a morire perché lei potesse vivere una vita nuova e più piena.

È quindi un amore capace di dire all’altro: «ho scelto te, al posto di me».

Probabilmente da fidanzato prossimo alle nozze o da novello sposo, se qualcuno mi avesse chiesto “Sei disposto a dare la tua vita per Giulia?”, immaginando appassionate gesta eroiche, avrei risposto senza pensarci due volte: «Certo! La amo, se dovesse capitare un pericolo, sarei disposto a morire per salvarla!»

Ma restava comunque un’ipotesi estremamente remota e, in fondo, il mio immaginario della vita matrimoniale era allora quello di un viaggio romantico ed appassionante, in cui tutto sarebbe stato bello ed entusiasmante. 

Ben presto però mi sono accorto di come la realtà smaschera le aspettative: ad un certo punto, l’impressione era quella di risvegliarmi accanto ad una specie di estranea, diversa dalla fidanzata tenera e amabile a cui il giorno delle nozze avevo detto «Io accolgo te …». Certo, era sempre lei, ma accanto alle cose belle, emergevano anche aspetti sconosciuti, fragilità e limiti tutt’altro che semplici da accogliere. E lo stesso chiaramente era vissuto da lei nei miei riguardi.

All’altare le avevo detto «Io accolgo te…» , ma in fondo, dentro di me, l’idea era: «Io accolgo te purché tu sia sempre carina, amorevole, dolce e comprensiva…»

Lentamente, ho compreso che questo “dare la vita” non passava attraverso eclatanti gesta eroiche, ma attraverso un accettare di morire quotidianamente. Cosa facile a dirsi, ma profondamente lacerante quando sei attaccato alle tue ragioni e ai tuoi modi di vedere le cose e l’altro esce deliberatamente dai tuoi schemi e non li accetta semplicemente perché è diverso da te.

Ricordo che durante un corso per fidanzati ci avevano detto che la relazione matrimoniale è paragonabile ad un viaggio nel quale di due valigie (quelle di ciascuno) occorre farne una sola insieme.

È evidente che in una valigia sola non può entrarci tutto e occorre fare delle rinunce. In me la cosa era abbastanza chiara: c’erano delle rinunce da fare, bisognava trovare un buon accordo, ma il viaggio valeva la pena.

Ciò che non immaginavo era che lungo il cammino, a volte, il bagaglio pesa, e per proseguire occorre lasciare indietro qualcosa… non immaginavo nemmeno che, a mano a mano che si fanno nuove esperienze insieme, occorre fare nuovo spazio ed imparare a fare a meno di qualcos’altro per non perdersi le cose belle. E soprattutto, mai avrei immaginato che anche certe cose spiacevoli che ti ritrovi senza volerlo nella valigia possono rivelarsi occasioni di vita.

Quando ci siamo sposati, proprio non lo immaginavo, ma davvero la chiamata alla vita matrimoniale è una chiamata ad un amore pasquale in cui uomo e donna sono disposti a donarsi reciprocamente la vita. 

Dopo undici anni di matrimonio posso dire che ne vale la pena, perché ad ogni morte per amore è seguita sempre una risurrezione, ad ogni rinuncia è seguito sempre un dono più grande, ad ogni spossessamento, una maggiore libertà, ed oggi quando ci guardiamo negli occhi la gioia è più grande di undici anni fa.

Tornando alla vocazione al matrimonio, siamo sempre più convinti che il Signore, se chiama a vivere un amore come il suo, non lo fa per masochismo, ma perché vuole dilatare il nostro piccolo amore e renderlo capace di cose sempre più grandi. Non a caso nel Sacramento del matrimonio viene effuso sugli sposi lo Spirito Santo che, se accolto, dona la grazia di amare come Cristo ha amato, nel dono sincero di sé.

Crediamo e speriamo che ci sia ancora tanto da camminare e da trafficare con quella benedetta valigia, ma abbiamo toccato con mano che non siamo soli. Lo Sposo è qui e la porta con noi.

Quaresima: storie di fioretti e fallimenti

Di solito l’arrivo della quaresima tende a suscitare in molti di noi sinceri slanci di miglioramento.

Ricordo che da piccolo questo era il periodo dei celebri “fioretti”. Sia in famiglia, sia al catechismo scattava un imperativo: bisogna fare qualche sacrificio per Gesù!

I fioretti normalmente potevano assumere due connotazioni: una negativa, ovvero le rinunce, e una propositiva, i buoni propositi. Sul fronte rinunce, ricordo molteplici approcci: rinuncia a guardare la TV, rinuncia ai dolciumi, rinuncia alla carne di venerdì e la rinuncia per me sempre più ostica… quella alla nutella!

Accanto alle rinunce, ero sollecitato ad inserire anche la parte più costruttiva: i buoni propositi. Qualche preghierina in più, non litigare con le sorelle, cercare di stare attento a messa, aiutare mamma ad apparecchiare, e via dicendo.

Se mi guardo indietro, devo constatare che da bambino, l’idea che mi ero fatto della quaresima era quella di un periodo veramente triste.

Crescendo, in me aveva prevalso un’ impostazione volontarista. Per cui negli anni delle superiori e dell’università la quaresima era diventata un tempo privilegiato per rimettersi in carreggiata nella vita di fede, una specie di training, di preparazione atletica in cui stringere i denti per poi vivere bene il resto dell’anno… Era finito il tempo dei banali fioretti da bambino, bisognava avventurarsi in qualcosa di più originale e articolato. Non più una banale rinuncia alla nutella, ma fare qualcosa di serio per essere bravi cristiani e piacere a Gesù.

Iniziava così l’epoca dei grandi propositi, la mia fantasia si sbizzarriva per cercare di trovare qualcosa di valido per mettere a frutto quel tempo: leggere una pagina di vangelo tutte le sere, non parlar male degli altri, dire le lodi ogni mattina, una messa extra infra-settimana, leggere un libro edificante, non usare internet per 40 lunghi giorni… Grandi propositi a cui corrispondevano sempre sistematici fallimenti.

Ricordo un episodio emblematico: mi ero proposto di digiunare a pane e acqua tutta una giornata fino a cena. Riuscito a superare eroicamente il pranzo con un solo pacchetto di cracker, a metà pomeriggio il morso della fame mi spinse in cucina. Volevo concedermi un altro pacchetto di cracker, ma poi mi dissi “i miei hanno comprato il pane, meglio mangiare un po’ di quello perché se avanza è un peccato”. Aprendo il sacchetto vidi che all’interno c’era anche una fragrante rosetta…  ve la faccio breve, intorno alle 17 stavo pasteggiando con un buon panino al salame.

Così, normalmente, capitolavano uno dopo l’altro i miei fioretti. E io passavo da sentimenti di grande compiacimento interiore se per due o tre giorni riuscivo ad essere costante, a delusione e sfiducia non appena fallivo il bersaglio.

Tutto era per me una ascesi volontarista, un perfezionamento, una specie di autoaffermazione religiosa in cui Gesù era poco più di una “scusa” camuffata sullo sfondo.

Per lungo tempo non sono riuscito ad andare oltre questo orizzonte, e le parole che ascoltavo in proposito erano sempre su quel tenore: chi diceva che Gesù ha sofferto per noi e quindi anche noi dobbiamo soffrire, chi diceva che la quaresima è un esercizio di rinuncia a sé perché Gesù ci ha detto che dobbiamo rinnegare noi stessi, chi ancora sosteneva che solo mortificando il corpo col digiuno e la preghiera si espiano i peccati, e così via…  Incontravo sempre frasi fatte, scollegate tra loro e non riuscivo a trovare un senso autentico a questo insieme di mortificazioni, per cui ho passato anche alcune quaresime in cui i buoni propositi erano praticamente azzerati per evitare la frustrazione del fallimento. Vivevo una fede fatta di comportamenti, norme e precetti, ma senza alcuna profondità relazionale.

Credo che molto spesso nei nostri ambienti cattolici si rischi di ripetere questo cliché. Un cristianesimo trasformato in etica esigente che vuole guadagnarsi la salvezza attraverso impegno, coerenza ed abnegazione: una malintesa concezione della sofferenza, un certo disprezzo del corpo, l’idea che Gesù voglia da noi qualcosa, che sia affetto da una specie di strano sadismo per cui è contento se anche noi soffriamo. Insomma, il pensiero che ci sia una specie di “tassa da pagare” per essere cristiani o per garantirsi i favori di Dio.

Tutto questo ci stanca, ci prosciuga, ci demoralizza perché manca una autentica prospettiva di relazione figliale con Dio. Tutto questo ci ha fatto perdere di vista che nel battesimo siamo figli di Dio, che il cuore di tutto è la relazione con il Padre e che Cristo da noi non vuole nulla, ma soltanto che ci apriamo all’amore di Dio.

La Liturgia che scandisce il tempo della Chiesa ci guida attraverso periodi di preparazione e momenti di compimento. La quaresima è quel tempo favorevole che ci prepara alla Pasqua. Ma in questa preparazione, l’iniziativa non è, come spesso pensiamo, nostra: “mi devo preparare”.

L’iniziativa è l’indistruttibile voglia che Dio ha di incontrarci ancora nel profondo del nostro cuore. Il Padre rivolge a noi la sua Parola, e la sua Parola il primo giorno della quaresima si sofferma sulle tre forme attraverso cui Dio si propone di incontrarci in questo tempo. (cfr. Mt 6,1-6.16-18)

Elemosina, preghiera e digiuno non sono precetti da assolvere, ma esperienza di unione con il Signore.

La preghiera che è relazione per eccellenza, dialogo cuore a cuore con il Padre, è posta come ponte unificante tra l’elemosina e il digiuno, che si ritrovano come atti profondamente connessi tra loro.

Digiuno ed elemosina sono infatti chiamati ad essere espressione di questa relazione. Il digiuno è multiforme rinuncia a ciò che appaga i nostri sensi e se vissuto nella relazione diventa partecipazione all’amore pasquale di Cristo. Infatti, ci fa sperimentare una piccola morte a noi stessi, al nostro individualismo, affinché possiamo aprirci al passaggio dell’elemosina, il passaggio all’amore donato, ovvero del dono di ciò a cui abbiamo rinunciato.

Esempio pratico: io digiuno da una pizza per donare i 20€ che ho risparmiato a chi ne ha bisogno, rinuncio ad un’ora di TV per donare quel tempo a qualcuno… il digiuno diviene così trampolino per passare da una vita di possesso ad una vita di dono.

La Pasqua d’altronde è proprio questo, è rivelazione dell’amore di Dio nella storia attraverso la passione, la morte e la risurrezione di Cristo.

La quaresima ci prepara a questo grande passaggio dalla morte alla vita, attraverso piccole morti e piccole risurrezioni quotidiane nelle quali il Padre desidera sempre più svelarsi a noi. Piccole “pasque” in cui ritrovarci sempre più figli.

Fissiamo allora lo sguardo su ciò che veramente conta: lasciamoci riconciliare con il Padre, sapendo che di tutto ciò che è vissuto da figli in Cristo, nulla è da buttare, né i nostri fioretti né i nostri fallimenti.

Buona quaresima.

La bella morte

Negli ultimi giorni la mia famiglia ha vissuto un momento importante e intenso, la morte del nonno. Importante e intenso, appunto, non brutto. Non riesco a dire che sia stato un brutto momento, anzi, mi viene proprio da dire che sia stato un momento bello. E lo dico con tutto il rispetto per il dolore che ciascuno di noi ha provato.

Sì, morire può essere bello, non perché non si soffra, ma perché oltre la sofferenza si possono cogliere doni preziosi, la morte infatti non è mai l’ultima parola sull’uomo, e in questa esperienza familiare lo abbiamo toccato con mano.

Lo sapevamo già, ad esempio la storia di Chiara Corbella Petrillo ce lo aveva insegnato, ma vedere che anche la morte di un uomo di 89 anni, che per qualcuno potrebbe apparire scontata, ha qualcosa da insegnare, mi fa davvero dire che “il Regno di Dio è in mezzo a noi”, nell’ordinarietà della vita vissuta con fede.

Il nonno ha vissuto proprio così la sua vita, da uomo onesto nel suo lavoro di direttore di banca, da marito e padre amorevole, saggio, di poche parole, ma sempre giuste e sapienti, da uomo mite, che ha vissuto in tutta pienezza la sua vita, e che viveva la sua vecchiaia nella pace e nella fiducia.

Con questa stessa pace ha affrontato gli ultimi giorni, dove non ha smesso di sorridere negli attimi in cui era cosciente e incontrava il volto di qualcuno accanto a lui, e di ringraziare. Le sue ultime parole, nelle ultime ore di agonia, dove faceva fatica a respirare, non era più nè grado né di mangiare né di bere, senza dentiera, con un grande sforzo di fiato e di tutto il corpo sono state: “Ti ringrazio molto” a sua sorella, che gli stava inumidendo le labbra per un pò di conforto. Quanto è vero che se impariamo a ringraziare, lo faremo anche nel momento della prova più difficile, la morte.

In quelle ore, poche per fortuna, ho proprio pensato che fosse unito a Cristo nella sofferenza della Croce. L’ultima cosa che ha “mangiato” infatti è stata una briciola di ostia consacrata, meno di 24 ore prima della morte: uniti nella sofferenza per un breve tratto, per poi essere uniti nella beatitudine eterna.

Dal momento che la situazione di salute del nonno è precipitata nel giro di pochissimi giorni, la sensazione è stata proprio quella di aver vissuto un piccolo triduo pasquale nell’intimità della nostra famiglia, dal venerdì alla domenica, giorno in cui il nonno è salito al Padre.

Un altro particolare che mi ha colpito è stato che, ad un certo punto, eravamo in cinque donne intorno a lui, nella sua elegante stanza da letto, e ho pensato che non fosse un caso. Sua moglie, sua figlia, la sorella, due nipoti: le donne di famiglia hanno presidiato la situazione, hanno consolato, si sono prese cura, hanno vigilato, hanno accarezzato, hanno cantato, hanno pregato. E non sto dicendo che gli uomini di famiglia non hanno fatto nulla, ma mi è stato evidente come il ministero femminile sia davvero diverso da quello maschile. Stare presso la vita e presso la morte è del femminile, la carezza di una donna è diversa dalla carezza di un uomo, la tenerezza di una donna è diversa dalla tenerezza di cui è capace l’uomo. Anche nel Vangelo, del resto, sono le donne che tamponano la sofferenza e cercano di preservare la dignità, come la la Veronica con il suo gesto rimasto alla storia, sono le donne che stanno presso la croce, sono le donne che poi si preoccupano del corpo di Gesù, la mattina successiva.

E come la domenica mattina a Maddalena viene annunciata la Resurrezione, così anche nella liturgia della domenica in cui il nonno è salito al Cielo, il tema era la resurrezione. E se la Parola ci parla nella vita concreta nel qui ed ora, impossibile non leggerla come la certezza che il nonno è stata accolto tra le braccia di Dio, in cui ha sempre creduto.

Il giorno del funerale poi, quale gioia scoprire che la liturgia del giorno parlava del nonno: nella prima lettura dal libro della Sapienza “Le anime dei giusti , invece, sono nelle mani di Dio, nessun tormento li toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace.”

E nel Vangelo: “Così anche voi, quando avete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare.”

Proprio così è morto il nonno, nella pace di aver fatto tutto ciò che “doveva” fare, nella consolazione di aver compiuto la sua missione su questa terra, nella gioia di aver accanto a lui tutta la sua amata famiglia.

E il dono della sua esistenza non è cessato con la morte, perché ci ha lasciato il suo testamento spirituale, dove ringrazia per i doni che ha ricevuto nella vita, benedice tutti e ci raccomanda “la sola cosa importante in questa vita e in quella futura, la Fede”.

10 cose che ho imparato nei primi 10 anni di matrimonio

Il 15 giugno abbiamo fatto una bellissima festa per festeggiare i nostri primi 10 anni di matrimonio e abbiamo cercato di tirare un po’ le somme per ricordarci ciò che è importante per i prossimi 10 anni! Di seguito il mio il punto di vista.

1) Non posso cambiare mio marito, ma lui è cambiato lo stesso!

I primi anni di matrimonio, accanto all’entusiasmo per le cose nuove (che bello! vado a fare una lavatrice con la nostra nuova lavatrice nella nostra nuova casa!) e per la vita quotidiana insieme, ci siamo presto accorti che la diversità di idee, aspettative, modi di fare e di pensare, di agire e di reagire (tutto insomma!) ci portavano a stare molto scomodi insieme, a farci soffrire per apparenti banalità. Ovviamente il problema non era tanto scegliere un tipo di mensola piuttosto che un’altro, quanto invece (questo lo abbiamo capito dopo) non sentirci ascoltati e accolti dall’altro. Quanto avrei voluto, in quei momenti, che Tommy fosse diverso, e lui altrettanto evidentemente!

La cosa è bella è che piano piano piano (vedi punto 9) ci siamo ritrovati cambiati, più capaci di stare in relazione tra noi, più attenti all’altro, più disponibili all’ascolto e al dialogo senza fucile già puntato preventivamente contro l’altro.

Non si tratta di magia, ma di disponibilità a mettersi in discussione, in cammino, e tanto lavoro su di sé, spirituale e umano.

Ah, per non destare fraintendimenti: ciò non significa che siamo diventati uguali! Anzi, sempre più differenti, ma quelle differenze non erano più un problema, anzi una risorsa e una pienezza per la nostra coppia.

2) La sessualità ha bisogno di tempo

Questo è un tema molto ampio, che tratteremo sicuramente in modo più approfondito nei suoi tanti aspetti in altri articoli. Qui basti dire che, visto che la nostra vita sessuale è iniziata con la nostra vita matrimoniale, abbiamo dovuto conoscerci anche sotto questo punto di vista. E come la nostra relazione si è approfondita man mano in questi 10 anni, di pari passo così è stato anche per la nostra intimità fisica. Sembra scontato, ma sappiamo che per tante coppie la sessualità è un problema, e purtroppo se ne parla ancora molto poco. Un piccolo segreto, scontato se volete ma neanche tanto, è questo: l’intimità fisica cresce in funzione dell’intimità della relazione.

3) Dai bisogni inconsapevoli alle scelte consapevoli

Quanto mi ha fatto soffrire vedere che quella che pensavo fosse una scelta d’amore, recava in sé, oltre a questo, tanti miei bisogni (parlo dal mio punto di vista, ma ciò riguarda entrambi in modo  più o meno importante) di cui, a 22 anni, età in cui mi sono sposata, non ero minimamente consapevole. Vedere quello che c’era dietro alla facciata di “coppia modello”, è stato piuttosto doloroso, intuire che amare è una cosa diversa da quello che credevo, altrettanto doloroso.

Credo che alla maggior parte delle coppie possa succedere questo, in modo più o meno traumatico e più o meno “patologico”. Dopo questo “shock” iniziale, è stato fondamentale fare memoria della storia di Dio con noi, come singoli e come coppia. Lui non poteva essersi sbagliato. Così su una nuova fiducia, è stato importante ri-scegliere, questa volta in modo davvero consapevole, il nostro matrimonio, ma soprattutto fidarci di Dio che era in mezzo a noi e ci teneva per mano.

4) La fecondità è aderire al progetto di Dio per la nostra coppia

Fecondità. Parola tanto odiata e tanto amata. Non avendo figli, i primi anni di matrimonio, ma già al corso prematrimoniale, la parola fecondità faceva “rima” con “piano B se le cose non funzionano bene”. Quanto odiavo questo concetto: c’è la fertilità, poi per chi non ha figli c’è la fecondità. Mi faceva proprio arrabbiare. Anche questo è un argomento di vita vissuta molto importante, profondo, ampio, difficile. Troppa roba per condensarla in poche righe. Quello che voglio dire per ora, qui, è questo: ogni coppia è chiamata ad essere feconda, se no, anche se ha 2,3,4,5 figli, rimane in un certo senso “sterile”. La fecondità è aderire al progetto di Dio per la nostra coppia. Fecondità è lasciare lo spazio a Dio di agire, assecondare lo Spirito Santo, essere come le pale eoliche che si lasciano attraversare del vento dello Spirito e producono “energia”, cioè vita, cioè quello che Dio vuole generare con noi (ringrazio mio papà che mi ha regalato questa immagine). Chiara Corbella ed Enrico Petrillo lo testimoniano: quanta vita, quanti figli partoriti alla fede e tanto altro, attraverso la loro storia vissuta con Dio.

5) Ci sono momenti molto difficili in cui butteresti tutto all’aria.. non farlo perché, semplicemente, ne seguiranno di molto belli, anche se ti sembra impossibile

Questo è più un mantra di speranza da ricordarsi, portare al cuore e alla mente, per i momenti più difficili. Il Signore fa nuove tutte le cose, chiedi a Lui, arrabbiati, disperati, supplicaLo: non vede l’ora di poterti liberare dalle tue prigioni e dai tuoi sepolcri.

6) Alcune cose è meglio non farle insieme, altre, o insieme o niente.

Su questo punto ci si intende presto con degli esempi. Cucinare ad esempio, è un ambito nel quale io e mio marito agiamo in modo molto diverso per cui insieme è un po’ difficile. Per cui o cucino io e lui non si intromette, o viceversa. Ma questo significa anche che è bene conservare un proprio spazio, fare delle esperienze anche da soli, coltivare la propria differenza per arricchirsi e arricchire l’altro.

Ci sono altre cose poi, che abbiamo imparato che è meglio fare insieme, per il bene della coppia ma anche degli altri. Ad esempio: vi chiedono un servizio in parrocchia? Farlo come singolo o farlo come coppia è tutta un’altra cosa. Se lo fate come coppia, mettete in gioco anche la vostra relazione, il vostro sacramento, e ciò arricchisce enormemente di più il vostro contributo e la vostra “missione”.  Ed è pure una cura preventiva da protagonismi personali, dall’impegno più fuori casa che dentro casa, dall’essere coinvolti in dinamiche sterili e non equilibrate anche rispetto alla propria coppia e famiglia.

7) Meglio non fare troppi progetti ma godere di ciò che la vita ci offre

Anche questo è un mantra da ricordare. La vita che ti viene data da vivere è ora. Troppo tardi quando sarai in pensione, troppo tardi forse anche l’anno prossimo. Ci sono delle possibilità, opportunità, che la vita ti offre ora. Coglierle al volo e goderne è accogliere i doni che Dio vuole farci oggi. Per questo non bisogna programmare troppo: se si è troppo impegnati nel seguire il proprio programma si rischia di non cogliere ciò che di bello e alternativo ci viene messo davanti.

8) Le relazioni, alcune in particolare, sono il bene più prezioso

Non sono quella che socializza facilmente. Mio marito va molto meglio sotto questo punto di vista. Una delle cose più importanti che abbiamo capito in questi 10 anni è che Dio si è manifestato tante volte attraverso le persone che ci ha messo a fianco. Le relazioni in cui si può parlare di sé, delle proprie fatiche e ferite, in cui ci si sostiene a vicenda, si condivide e si cresce nella comunione sono un grande dono di Dio, più prezioso dell’oro, perché non si possono comprare ma sono solo un dono.

9) Non bisogna avere fretta, lo Spirito è maestro delle lente maturazioni

Tante volte ci siamo chiesti cosa Dio desideri da noi e cosa noi con Lui. La risposta non l’abbiamo ancora, però non possiamo non vedere quanto la nostra vita sia cambiata in questi 10 anni. Per chi non ci conosce bene, tutto sembra rimasto uguale: stesso paese, stessa casa, stesso lavoro (almeno uno dei due), nessun figlio ecc… quante cose invece noi e chi ci conosce bene sa che sono cambiate! Dentro di noi, nella nostra relazione, nel nostro rapporto con Dio, nelle nostre amicizie, in quello che facciamo, anche se non sbandierato da nessuna parte. Nella fede non ci sono soluzioni e risposte pronte, bisogna solo mettersi in cammino, in ascolto, e in gioco, e piano piano, piano piano, piano piano, lo Spirito crea e ti fa maturare, e il seme germoglia.

10) Più ti muovi, più ti arricchisci

In questi 10 anni le nostre automobili hanno percorso tantissimi km. Incontri, esperienze, amici da vedere, testimonianze da fare, relazioni, colloqui, esercizi spirituali, seminari, cene. I nostri familiari sanno bene che siamo sempre in giro e si sono rassegnati sia a badare alla nostra gatta mentre siamo via, sia al fatto che spesso manchiamo ai tradizionali pranzi della domenica e affini. È vero, spesso anche io mi sono lamentata di questo essere spesso in macchina, o in treno o anche aereo, ma la verità è che ogni tragitto è stato sempre ricompensato. Quanto ringrazio il Signore di non avermi lasciato nelle mie comodità e nei miei cliché, del sabato a fare la spesa e della domenica a pranzo o dai miei o dai suoceri, con un’alternanza rigorosa.

Lo ringrazio perché ha allargato i nostri orizzonti, ci ha regalato amicizie bellissime, ci ha fatto sentire la sua presenza in mille modi, ci sta guarendo e salvando piano piano.

Questo non significa che debba essere così per tutti, però è vero che più allarghi i tuoi orizzonti, più il tuo mondo diventa ricco.

Ora siamo curiosi di scoprire e vivere ciò che ci riserveranno i prossimi 10 anni.

Do you know teologia del corpo?

Chi di voi ha sentito parlare di teologia del corpo?

Per qualcuno forse è un argomento noto, qualcun altro può averne sentito parlare, ma non aver mai approfondito il tema, infine alcuni si chiederanno, come ha fatto mio nonno: “teologia e corpo? Non sono due concetti molto distanti tra loro? Come fanno a stare insieme?”

È vero, mio nonno ha passato gli 80 anni da un po’, per cui è ancora influenzato dalla mentalità che in molti ambienti ecclesiali è stata portata avanti fino a pochi decenni fa: Dio da una parte, e corpo e sessualità da un’altra, e che possibilmente non si incontrino.

Ma oggi qual è l’approccio dei cristiani riguardo questi temi? Nel corso delle nostre esperienze ecclesiali gli approcci che abbiamo incontrato oscillavano sempre tra due atteggiamenti di fondo. E sebbene anche noi per certi versi ci siamo lasciati influenzare, nessuno di essi ci ha mai convinto fino in fondo.

Il primo estremo lo chiamiamo moralismo e si presenta normalmente con espressioni del tipo: “La Chiesa non approva i metodi contraccettivi”, ”La Chiesa non ammette rapporti prematrimoniali”, ”La Chiesa è contraria alle unioni omosessuali”. Frasi così, un po’ secche, di solito corredate da spiegazioni di tipo razionale, volte a convincere l’interlocutore di turno che quello è l’unico modo per essere ‘dentro’, l’unico modo per essere buoni cristiani, brutti e cattivi quelli che non vivono così… tutto ciò porta normalmente ad un senso di superiorità per chi si sente dentro al recinto dei bravi, di quelli che si sacrificano per rispettare le regole anche senza capirle fino in fondo, e si fidano della Chiesa come di un’autorità un po’ impersonale ed intransigente. Per quelli che restano fuori dal recinto invece, si alternano sensazioni che vanno dal sentirsi  giudicati, al ritenersi più furbi e liberi. Per gli uni e per gli altri poi, purtroppo spesso si instilla dentro uno strisciante senso di colpa che adombra la sessualità con il suo pesante alone. C’è poi anche chi intuisce che, tra tutte queste sentenze, pur essendoci del buono, manca qualcosa di davvero affascinante.

All’estremo opposto c’è il secondo atteggiamento che possiamo chiamare lassismo ed è riassumibile con l’espressione “Fate quello che vi sentite, la sessualità e il corpo non sono argomenti davvero importanti per la fede”, che a volte prende la forma di un imbarazzante silenzio di chi non sa che pesci pigliare, e quindi il punto di arrivo è lo stesso: ognuno in questo campo si arrangi.

Scoprire gli insegnamenti di Giovanni Paolo II sull’amore umano (corpo e sesso compresi) è stato per noi e per tante altre persone, incontrare finalmente una risposta autorevole senza essere autoritaria, una risposta che ci ha chiarito la morale senza essere moralista, una visione davvero completa che abbraccia tutte le dimensioni della persona e del suo essere parte della Chiesa e che lascia allo stesso tempo la libertà di un cammino che è necessariamente personale.

Lo scopo di questo blog è diffondere questo grande insegnamento attraverso contenuti semplici e immediati, mediante articoli a volte più formativi, a volte più personali o di testimonianza, e vuole essere anche un luogo virtuale in cui far rete e condivisione.

Per cui, se la tua risposta alla domanda che funge da titolo è “No”, oppure “Sì, e vorrei scoprire di più”, seguici su questa pagina e, se vuoi, dai un’occhiata alle iniziative proposte insieme all’equipe Misterogrande a questo link: www.misterogrande.org/tob