Qual è la MISSIONE della tua coppia?

Recentemente un’amica ci ha chiesto se esistono corsi per scoprire la propria missione di coppia.

La sua domanda non ci ha stupito perché da diverso tempo circola, soprattutto sui social (ma non solo), la tesi secondo cui ciascuna coppia di sposi ha una specifica missione da scoprire. E non mancano coppie che, sulla base di questa tesi, si danno da fare, prodigandosi in progetti di vario genere.

C’è senz’altro in questa inquietudine qualcosa di positivo e vero, ma allo stesso tempo cogliamo anche una certa confusione. Proviamo allora di condividere alcune luci ricevute nel nostro cammino di sposi che ci hanno orientato su questo tema.  

Partiamo facendoci qualche domanda: Esiste una missione degli sposi cristiani? E se esiste, si tratta di una missione generica o di una missione specifica per ogni coppia?

Questi interrogativi si collocano ovviamente nel più ampio contesto dell’approfondimento sacramentale del matrimonio cristiano che ha avuto inizio in modo significativo solo nel secolo scorso, dopo il Concilio Vaticano II ed in particolare col pontificato di San Giovanni Paolo II.

A questo proposito, come coppia, abbiamo avuto la fortuna di camminare fin da giovani sposini vicino a don Renzo Bonetti, un sacerdote a cui vogliamo molto bene, che ha speso gran parte del suo ministero proprio sul tema del sacramento del matrimonio. Più volte lo abbiamo sentito “pungolare” le coppie sul fatto che il sacramento del matrimonio non è un fatto privato, ma è un dono per edificare la Chiesa e ricordiamo ancora certe sue frasi ad effetto: “il matrimonio non è solo per voi, ma per la Chiesa”; “gli sposi sono Eucaristia per il mondo!”; “attraverso gli Sposi Cristo vuole raggiungere l’umanità!”, tanto per citarne alcune.

Non si tratta chiaramente di una sua invenzione, il Catechismo stesso ricorda che il matrimonio, come l’ordine, è un sacramento a servizio della comunione e racchiude una chiamata all’edificazione del Popolo di Dio.  (cf. CCC, 1534). Quindi sì, è fuori dubbio, esiste una missione degli sposi inscritta nel sacramento! Ma di cosa si tratta?  

Prima di rispondere a questa domanda riflettiamo un attimo sulla parola “missione”.

Si tratta di qualcosa che riposa più o meno velatamente in ogni cuore umano: ciascuno di noi sente infatti di non essere nato per caso, ed avverte il desiderio di essere chiamato in qualche modo a lasciare il segno su questa terra!  Ma, oltre a ciò, non possiamo non tenere presente alcuni elementi che condizionano il nostro immaginario. Innanzitutto, noi che siamo cresciuti con i film di Mission: Impossible, colleghiamo facilmente la missione ad imprese di carattere eroico nonché ad un’attesa di successo, di riconoscimento e stima da parte altrui. In ambito cattolico poi, oltre ad essere associato all’evangelizzazione (si pensi alle missioni), il termine “missione” è quasi sempre collegato alla proposta di attività pastorali.

Vale la pena tenere presente tutto questo perché non di rado ci è capitato di cogliere come certi stimoli sul matrimonio come sacramento per il servizio agli altri, generino purtroppo dei fraintendimenti.

Ne vogliamo sottolineare in particolare tre, che, non solo portano fuori mira, ma rischiano addirittura di logorare la coppia stessa. Tutti hanno un comune denominatore: l’idea che la missione sia “fare qualcosa” o, meglio, fare qualcosa per Dio, un po’ come i Blues Brothers

1) Il primo fraintendimento lo definiremmo “clericale” e riguarda il confronto con il sacramento dell’Ordine. Ci spieghiamo: per tanto tempo il sacramento del matrimonio è stato trattato un po’ come qualcosa di “serie B” rispetto alla vocazione al celibato per il Regno, per cui per tanti sposi quanto scrive il Catechismo suona quasi come una rivendicazione del proprio valore e del proprio spazio, così spesso sminuito o strumentalizzato dai presbiteri. Ma al di là del senso di rivalsa, che già di per sé non è “secondo Dio”, il problema qui è che gli sposi rischiano di intendere la loro missione in termini “clericali”, quindi rivendicando spazi, ruoli e responsabilità e finendo per scimmiottare un modello che non gli è proprio. Ciò porta a considerare come più nobile tutto ciò che è “pastorale” in senso stretto: corsi, testimonianze, incontri, evangelizzazione, momenti di preghiera, rispetto a ciò che riguarda la vita ordinaria.

Ma cosa è più grande? Cambiare un pannolino o guidare un’adorazione? Uscire a mangiare un gelato con la propria famiglia o parlare ad un gruppo fidanzati? Invitare a cena i propri vicini o registrare un podcast? 

2) Il secondo fraintendimento si collega al primo ed intercetta invece il nostro bisogno di affermazione e riconoscimento. Ovvero il rischio di idealizzare la missione come un’impresa straordinaria ed esaltante che di successo in successo ci realizzerà personalmente e come coppia. Qualcosa che ci porterà ad essere riconosciuti, ad essere “qualcuno”, a sentirci dire: bello, bravi, grazie…

Ma è proprio questo il fine della missione iscritta nel sacramento del matrimonio? Un trionfo che non prevede la Pasqua?

3) Il terzo grande fraintendimento riguarda invece la deriva volontarista: “dobbiamo darci da fare!”. Certi stimoli sulla missione degli sposi, anche in buona fede, gettano addosso alle coppie un’aspettativa, un’ideale da raggiungere e un conseguente slancio sul “fare”. Rischia di consolidarsi così l’idea che la missione sia qualcosa che dobbiamo produrre noi con i nostri sforzi e il nostro impegno.

Ma una coppia di sposi è forse un “team” che produce cose?

Ora possiamo dirlo chiaramente, il punto è che non è facendo cose che si compie la propria missione di sposi.  

Anzi, tutto questo slancio sul “fare cose” porta con sé rischi molto seri: innanzitutto crea un ottimo alibi per non prendere in mano le concrete difficoltà che maturano via via nella coppia e trascurare la propria chiamata di sposa/o e madre/padre. Inoltre, tutto ciò rischia inesorabilmente di creare coppie che vengono considerate di serie A perché “fanno” e altre che vengono considerate di serie B perché “non fanno”! Tutto questo poi finisce per generare ansia da prestazione o la sensazione che il proprio valore dipenda da quanto si fa e da quanto riconoscimento ottiene ciò si è fatto.

Crediamo che questi fraintendimenti risiedano proprio nel come si intende il sacramento del matrimonio.

Ora, sappiamo che un tema come questo richiederebbe una trattazione ben più ampia ed articolata, ma ci accontentiamo di alcuni piccoli spunti utili alla nostra riflessione.

Iniziamo ricordando che i sacramenti sono i canali di Grazia attraverso cui Cristo continua la sua opera di salvezza ed in particolare nel sacramento del matrimonio l’effusione di grazia avviene proprio sull’amore uomo-donna, sulla relazione tra sposo e sposa. È questa relazione a costituire il segno sacramentale del matrimonio. È questa relazione ad essere abitata dal mistero della Pasqua di Cristo. La vita di due sposi allora è un sacramento costantemente in atto, o almeno sarebbe chiamata ad esserlo.

La prima chiamata (o missione) di due sposi, quindi, è accogliere e prendere sul serio il mistero della presenza di Cristo salvatore nella loro relazione. Non a caso Papa Francesco diceva che il sacramento è innanzitutto un dono per la salvezza e la santificazione degli sposi (cf. AL, 72). 

Spesso finiamo per considerare l’amore matrimoniale come uno sforzo o un dovere, oppure come una meta da raggiungere, ma il sacramento ci ricorda invece che l’Amore, quello con la “A” maiuscola, è un dono che ci è stato fatto gratuitamente e che siamo chiamati ad accogliere per poterci amare.

È interessante anche notare che nei vari pronunciamenti del magistero quando si parla della “missione degli sposi” non c’è nessuna indicazione sul “fare cose”, ma piuttosto accorati inviti ad accogliere e manifestare l’Amore di cui sono divenuti partecipi. Ecco alcuni esempi:

«gli sposi, “in forza del Sacramento, vengono investiti di una vera e propria missione, perché possano rendere visibile, a partire dalle cose semplici, ordinarie, l’amore con cui Cristo ama la sua Chiesa, continuando a donare la vita per lei». (AL, 121)

«La missione forse più grande di un uomo e una donna nell’amore è questa: rendersi a vicenda più uomo e più donna» (AL, 221)

«la famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l’amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione dell’amore di Dio per l’umanità e dell’amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa». (FC, 17)

L’invito è chiaro: il protagonista della missione degli sposi non è la coppia, ma è Dio stesso che chiede di essere accolto e manifestato nelle cose semplici e ordinarie della vita. Quelle cose quotidiane che in fondo, a ben vedere, se abitate dall’amore, non sono meno straordinarie di quelle “straordinarie”.

La missione degli sposi è una sola! La missione non è fare, ma lasciarsi fare! Lasciarsi fare da Dio! Lasciarsi rigenerare dall’Amore, rimanere nell’Amore! Lasciarsi guidare da Lui sulla strada che ha pensato per noi, che la maggior parte delle volte è ben diversa da quella che fantastichiamo o che avremmo scelto.

E questa strada ha origine solo nell’Amore custodito e accolto tra gli sposi, perché è solo lì che si genera la Vita! E allora sarà la Vita, la Vita di Dio, a manifestarsi e a dilatarsi a modo suo oltre i confini famigliari per edificare la Chiesa!

L’amore vero, infatti, e il cammino spirituale non conducono mai alla chiusura intimistica, sempre allargano il numero delle persone coinvolte, sempre si dilatano ed insieme generano responsabilità per il bene dell’altro.

L’amore vero non conduce mai verso “due cuori e una capanna”, ma ha sempre come orizzonte la “famiglia grande!”, la Chiesa, nei mille modi che lo Spirito cuce su misura per ciascuna coppia. In fin dei conti, infatti, questo cammino ha senso e si compie nella misura in cui ci rende sempre più uomo e donna, sempre più sposi, e in virtù della nostra unione tra noi e con Dio, ci rende sempre più padre e madre (in un senso molto più ampio della vita biologica).

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Qual è lo scandalo del gruppo FB “Mia moglie”?

Nei giorni scorsi personaggi più o meno famosi e da posizionamenti culturali differenti si sono stracciati le vesti alla notizia che un gruppo Facebook intitolato “Mia moglie” raccogliesse migliaia di uomini (ma forse anche qualche donna) che si scambiavano foto più o meno esplicite, appunto, delle loro compagne (reali o presunte). Scopo del gruppo? Un turpe “gioco” erotico in cui l’eccitazione è data dall’esporre la propria donna allo sguardo altrui e dal leggere le fantasie di altri uomini su di lei; e viceversa dal partecipare guardando e commentando le foto postate da altri.

Certamente un fatto molto grave.

Ma attenzione, qual è l’elemento di scandalo di questa notizia? Qual è il punto cruciale che ha scatenato l’indignazione generale?

È riportato nell’intervista che il Corriere della sera ha fatto alla donna che ha denunciato questo fatto, riportiamo letteralmente:

Ciascuno è libero di fare quel che vuole ma se un uomo dà in pasto al mondo del web la foto intima di sua moglie senza chiederle il permesso ha un problema con il concetto di consenso, e mi pare che non sia un problema di poco conto. È questo l’aspetto che conta di più in questa storia.”

Dunque: il consenso. La violazione della privacy.

Certo, è un reato. Certo, è violazione della persona, quindi violenza. Ma allora se ci fosse stato consenso andava tutto bene?

Sì, per la nostra cultura se ci fosse stato il consenso non ci sarebbe stato nessun problema!

Non è forse questo il vero “scandalo” o, meglio, la vera tristezza della cultura di oggi che emerge da questo fatto di cronaca? E a ben vedere non emerge anche il suo paradosso? E cioè che in una società in cui il valore assoluto è la libertà individuale e dove la sessualità e il corpo sono affrancati da ogni valore, proprio questo porta a perdere di vista la dignità della persona, creando involontariamente le condizioni per tante forme di abuso.

Non vogliamo in nessun modo sminuire la gravità di questo fatto o negare che stia sotto l’ombrello dell’abuso, e nemmeno svalutare il concetto di consenso.

Ma crediamo che in qualità di persone umane siamo chiamati ad andare più in profondità e anche ad osare affermare che forse, se manca il rispetto del consenso, è perché manca il rispetto dell’inviolabile dignità della persona e del significato profondo della sessualità.

Nel momento in cui il solo scopo della sessualità è il piacere, il corpo è ridotto a strumento disarcionato dalla persona, l’intimità sessuale della coppia è tendenzialmente vissuta come performance e gratificazione individuale, questa ne è una delle conseguenze.

Le radici di questo fatto di cronaca bieco e inammissibile allora non sono solo nel patriarcato (altro grande imputato di questo processo), ma nel valore e nel significato che si danno al corpo, alla sessualità, al concetto di persona nella nostra cultura.

Come uomini e donne abbiamo davvero tanto bisogno di scoprire che la sessualità ha un suo proprio linguaggio, che è molto più profondo di così; abbiamo tanto bisogno di “rileggere” il significato del linguaggio del corpo nella verità che il corpo stesso esprime.

Abbiamo tanto bisogno di riscoprire che la persona ha una dignità inviolabile che passa innanzitutto dal suo corpo, e che tale dignità si accorda col fatto che la persona non può mai essere trattata come un mezzo ma solo come un fine, che la persona è un bene superiore al piacere, un bene nei confronti del quale solo l’amore può costituire l’atteggiamento adeguato.

E abbiamo anche tanto bisogno di scoprire che la sessualità nella coppia è il linguaggio privilegiato per esprimere l’amore, il dono e l’accoglienza reciproci e per questo necessita di custodia e intimità.

Ecco perché abbiamo bisogno di scoprire in profondità la teologia del corpo, che non è moralismo, ma è riconoscere la massima dignità alla persona, a partire da se stessi, e alla sessualità.

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La grande avventura dell’essere padre in CAPTAIN FANTASTIC

Conosci Captain Fantastic? No, non è l’ennesimo supereroe, ma il titolo di un film del 2016 con Viggo Mortensen come protagonista, dove l’attore interpreta il ruolo di Ben, un padre di sei figli.

In questo nostro tempo, che qualcuno ha definito caratterizzato proprio dall’assenza della paternità, con tutto ciò che questo termine significa nella realtà e simbolicamente, questa storia punta tutto invece su un padre.

In estrema sintesi il film racconta di una famiglia molto sui generis che decide di crescere i figli in una foresta del Nord America, lontano dalla cultura dominante, e proponendo un proprio modello educativo alquanto originale e decisamente radicale, dove non sono previsti l’elettricità (tanto meno device elettronici) e festività tradizionali come il Natale, ma lo sono ad esempio la caccia a mani nude e la venerazione dell’intellettuale Noam Chomsky.

Se all’inizio sembra funzionare tutto in maniera quasi idilliaca, ben presto succede qualcosa (tranquilli, non spoileriamo) che inizia a incrinare questo modello educativo, anche se nello scorrere del film continuano ad esserne evidenti pregi da un lato e difetti dall’altro. Proseguendo nella storia poi, si arriva ad una crisi definitiva quando gli insegnamenti paterni fanno incorrere in un grave pericolo un membro della famiglia. A questo punto il limite di questo modello educativo diventa evidente, ma quando tutto sembra solo un grande fallimento, è proprio la capacità del padre di ammetterlo, che permette di ricominciare in un altro modo e mantenere unita la famiglia.

Il film ovviamente è molto più ricco di così, ma per gustarne tutte le emozioni e le scene irriverenti che contiene, vi invitiamo a guardarlo (se non lo avete già fatto).

Ora quello che vogliamo sottolineare sono proprio i tratti paterni che emergono, al netto delle “particolarità”.

Innanzitutto Ben è un padre di sei figli: basta questo per dire che non si limita al minimo indispensabile per diventare padre, ma è generoso, non ha paura di dare la vita, non ha paura di perderci (i propri spazi, il proprio tempo, i propri soldi, ecc..) perché sa che nel donare la vita non la si perde ma la si guadagna.

In questo “guadagno” c’è sicuramente anche il fatto che ogni figlio porta una sua bellezza e una sua ricchezza specifica alla famiglia. Nel film ciò è rappresentato dal fatto che ogni figlio suona uno strumento musicale diverso, come a dire che ognuno ha una personalità diversa che “suona” in maniera differente, e può offrire il suo personale contributo alla “melodia” famigliare.

Inoltre, è interessante notare che, nonostante la madre non sia presente fisicamente (vedendo il film capirete perché), la sua presenza si percepisce in tutto il film, proprio perché Ben non è un padre single: anche se solo, è un uomo che è divenuto padre attraverso una donna, sua moglie. È la coppia che ha generato, è la sua donna che lo ha reso padre ancora prima dei suoi figli. Anche questo è un tratto che spesso si dimentica: la paternità è un dono che arriva sempre dall’unione con una donna, è frutto di un dono reciproco, e questo la rende più libera perché la rende appunto “frutto” e non risultato o traguardo di un proprio progetto personale.

E come fa il padre, Ben?

Innanzitutto educa personalmente i suoi figli e si gioca in prima persona, anche sugli argomenti più scomodi come la morte o il sesso. Insomma, non delega a nessuno questa sua responsabilità paterna, ma se ne assume tutto il carico, facendo anche degli errori certo, ma mettendocela tutta.

In questo suo impegno educativo mostra vari tratti di una paternità vissuta autenticamente e pienamente e che potremmo riassumere in questi punti:

  • Non ha paura di parlare con i figli, di presentargli la realtà così com’è, e non si sottrae alle loro domande, ma si fa trovare, così come egli non manca di fare domande a loro. Con metodo maieutico infatti, li ascolta e chiede loro lo sforzo di esprimere il proprio pensiero e di sostenerlo, non si accontenta di risposte superficiali o da slogan.
  • Non teme di mettere i figli davanti alla realtà della morte come parte integrante della vita.
  • Non ha paura di esercitare la sua autorità (dal latino auctor cioè “colui che fa crescere”), non ha timore di prendere una posizione netta: nell’educare trasmette i suoi valori, un po’ strampalati in questo caso, ma che hanno il pregio di essere consistenti, trasmettendo ai figli un’etica solida e coerente, che loro potranno in futuro accogliere o contestare.
  • È capace di sintonizzarsi sulle emozioni dei propri figli, cioè di percepirle, riconoscerle e validarle. Li “vede” anche da questo punto di vista, non vede solo le sue aspettative su di loro. Magistrale in questo senso è la scena di sintonizzazione emotiva attorno al fuoco all’inizio del film: Ben iniziare a suonare la chitarra proponendo un ritmo, ma si dimostra pronto a cambiarlo nel momento in cui uno dei sei figli ne esprime uno diverso, suonando le percussioni ed esprimendo la propria rabbia. Tutta la famiglia a quel punto si sintonizza su quel ritmo e su quell’emozione, facendo sentire accolto e validato lo stato emotivo di Rellian.
  • Ben è anche un padre che a suo modo trasmette il maschile ai propri figli maschi: con la lotta e la caccia passa loro la gestione dell’aggressività, e quando il figlio maggiore parte per farsi la sua vita, gli fa un conciso e diretto “discorso” da uomo a uomo su come trattare (con rispetto) le donne.
  • Inoltre è un padre che non ha paura di andare controcorrente rispetto alla cultura che abita. Nel film questo è certamente un’iperbole, ma ci offre un insegnamento prezioso perché, se è vero che tutti, in quanto figli, ereditiamo una cultura, è altrettanto vero che una volta adulti, siamo legittimati a diventarne padri, ovvero ad elaborane una nostra visione e ad offrire un nostro personale contributo. Anche questo ci sembra un importante compito a cui essere iniziati proprio in famiglia.
  • Infine, è un padre che sa riconoscere i propri limiti e da questi si fa mettere in discussione. Questo è uno degli insegnamenti più forti del film: Ben è un padre che sa ammettere i suoi errori e sa chiedere scusa e questo, anziché fargli perdere autorevolezza davanti ai propri figli, al contrario gliene fa di nuovo guadagnare la stima. Infatti, come si vede nello snodarsi del film, non è il fallimento che crea una rottura con i figli, ma la sua negazione. Ed è riconoscerlo e ammetterlo che fa recuperare la stima e la relazione con i figli.

Captain Fantastic insomma ci è piaciuto perché racconta una paternità autentica, non perfetta, ma vissuta in pienezza, con audacia e forza, e capace di compiere il passaggio più grande (e più difficile): passare da una paternità autocentrata che vede i figli in funzione del proprio progetto, ad una paternità decentrata che rinuncia al proprio progetto per mettersi al servizio di quello che ogni figlio vorrà liberamente intraprendere. 

È quindi un film che incoraggia ogni uomo a diventare padre nel senso più pieno del termine: non è generare un figlio (o sei figli) che rende padri, è assumersene tutta la responsabilità, con i propri limiti ed errori, certo, ma non sono questi che compromettono la paternità, nel momento in cui ci prende la responsabilità anche di quelli.

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Missionari digitali o aspiranti influencer? 3 bucce di banana da evitare

Recentemente un amico, che stimiamo per la sua profondità di pensiero, avendo saputo che ci sarà il giubileo degli influencer cattolici (o meglio, dei missionari digitali), ci ha detto qualcosa che ci ha fatto molto pensare:

«Spesso, l’impressione che ho guardando certi influencer cattolici è che più che rispondere a un bisogno della Chiesa stiano piuttosto rispondendo ad un loro personale bisogno. E questo bisogno personale tante volte porta fuori mira rispetto al reale bisogno della Chiesa».

Sono parole forti, forse un po’ giudicanti, ma che senz’altro contengono del vero e da questo stimolo è nata una interessante chiacchierata/riflessione sugli “approcci missionari” da social network di cui desideriamo condividervi qualche tratto saliente e che in un certo modo può essere il proseguo dell’articolo scritto qualche tempo fa su questi temi: Nei social, ma non dei social

A noi per primi sono state utili queste riflessioni non tanto perché ci sentiamo missionari digitali, tutt’altro, ma perché essendo comunque presenti sui social, ci hanno aiutato a metterci in discussione.

Allora, quale potrebbe essere il “personale bisogno” che muove tanti a farsi spazio per evangelizzare sui social, ma che rischia di portare fuori mira?

Non vogliamo fare processi alle intenzioni, anche perché occorre tenere conto che questo è un terreno complesso, dove le cose non sono mai bianche o nere, ed anche i bisogni più distorti (spesso inconsapevoli) si mescolano sempre a nobili desideri e propositi di bene, quindi occorre grande prudenza.

Abbiamo però individuato tre “bucce di banana” che nonostante le più buone intenzioni, fanno drammaticamente scivolare fuori strada, lontano dal vero obiettivo che è evangelizzare.

1)  Il bisogno di stima e riconoscimento.

Ciascuno di noi naturalmente ha bisogno di conferme, di qualcuno che gli rimandi una certa stima e considerazione. Questo ovviamente a diversi livelli a seconda delle persone e del periodo della vita: il giovane che sta costruendo la sua personalità ne ha molto bisogno, l’adulto che dovrebbe già aver consolidato una buona autostima e fiducia in se stesso, meno. Eppure, questa naturale inclinazione, nell’ambiente social rischia di degenerare.

Non di rado, infatti, dietro una certa smania di evangelizzare riposa un inappagato bisogno di conferme, di essere visti e stimati, di sentirsi qualcuno; l’idea inconsapevole per cui l’ottenere visibilità e ascolti coincida con la conferma del proprio valore.

Una spia che ci può allertare su questo fronte è quando l’essere considerati e apprezzati crea in noi una certa ebrezza, un senso di euforia e gratificazione, una smania che spinge a produrre contenuti e iniziative (spesso non richiesti) per restare sotto i riflettori. Viceversa, un senso di abbattimento e tristezza se non riceviamo le attenzioni sperate.

Ecco allora che senza rendercene conto avviene una specie di corto circuito: con il nobile intento di evangelizzare succede che mi ritrovo a nutrire il mio ego!

E il contenuto, proprio perché espressione del mio ego, diventa più importante delle persone a cui si rivolge! Ma soprattutto porta fuori mira rispetto al proposito di evangelizzare perché più che a Dio porta… all’io!

2) La smania di sentirsi abilitati a parlare di tutto

La tuttologia, che il vocabolario della lingua italiana definisce “la boriosa presunzione di saper tutto”, è una tentazione che affligge spesso anche i meglio intenzionati.

Nessuno, lo sappiamo, si sente presuntuoso di default, ma quando ci anima una certa frenesia di dire e di proporre, o ci sentiamo dalla parte dei buoni che devono difendere il buon nome della morale cattolica, ecco che senza accorgercene rischiamo di avventurarci con leggerezza e superficialità in ambiti delicati o mai veramente approfonditi.

Capita infatti che stimolati dai follower o da qualche commento caustico, o per produrre contenuti, si finisca per interpretare la Bibbia “secondo me”, per citare “San ChatGPT”, o per snocciolare a sproposito frasi fatte e slogan ascoltati, ma mai approfonditi o messi alla prova della vita.

E dobbiamo confessare che specie sul terreno della sessualità, e della teologia del corpo, ahinoi a volte ci siamo imbattuti in approcci di questo tipo! Come diceva Macario l’egiziano (monaco del IV secolo discepolo di Sant’Antonio abate) è come ascoltare qualcuno che ti parla della dolcezza del miele, ma si capisce lontano un kilometro che non l’ha mai assaggiato!

Anche così non si fa un buon servizio al Vangelo: il rischio di questo approccio è quello di dare messaggi parziali o addirittura distorti che finiscono per mancare significativamente il bersaglio e del vero bene delle persone a cui ci si rivolge, che passa sempre da una certa prudenza e dalla relazione con il caso singolo.

Occorre invocare il dono della prudenza, non basta essere in buona fede per annunciare una fede buona! Il fatto di fare qualcosa di “ufficialmente” nobile, non mi autorizza a parlare di tutto.

3) Sentirsi i paladini che difendono la fede

Spesso quando ci si sente così, capita che si creda di evangelizzare spiegando alle persone come si devono comportare e perché.
Questo atteggiamento, che potremmo riassumere nella parola “moralismo”, crea inesorabilmente divisioni e chiusure: sentirsi giudicati e trattati con superiorità spegne ogni apertura al dialogo e all’incontro.

Ecco allora servito il paradosso del moralismo: invece di costruire ponti, si alimentano sterili polemiche e dibattiti; invece di seminare bellezza e gioia, si diffondono giudizi e sentenze da veri boomer.

Papa Francesco, nell’Evangeli Gaudium (un testo che dovrebbe essere il vademecum di chiunque abbia il desiderio di evangelizzare), ricorda che l’annuncio cristiano non dovrebbe essere ossessionato dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine, ma dovrebbe concentrarsi sull’essenziale: ciò che è più bello, più grande, più attraente e più necessario. (cf. EG, 35)

Anche in questo terzo caso si cade lontano dall’obiettivo: il moralismo fa male agli altri, ma fa male anche a me perché mi fa sentire dalla parte dei buoni, dei giusti, di quelli che “hanno capito” e mi allontana dagli altri e dal riconoscere il mio bisogno di misericordia.

Ma allora che cos’è fare missione sui social?

Spiegare cosa è giusto e cosa è sbagliato?

Esibire i capi di abbigliamento “must have” per un autentico guardaroba cattolico?

Difendere i principi cristiani contro un mondo brutto e cattivo? 

Creare l’ennesimo percorso o podcast?

Offrire la milionesima proposta di commento al vangelo?

Che cos’è evangelizzare?

Il Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici (ma noi preferiamo decisamente la prima definizione) ci offre un’occasione preziosa per ripensare al significato della missione digitale perché non bastano le buone intenzioni per evangelizzare!

Forse davvero dovremmo liberarci dall’idea un po’ clericale che evangelizzare sia solo “spiegare cose”, la parola ha senz’altro un potere molto forte, ma evangelizzare, in fondo, è manifestare una vita nuova, rivelare nei gesti e nelle relazioni un incontro che ci ha cambiato la vita, quello con Cristo vivo e operante nella nostra vita. Come ricorda Papa Francesco: «Il missionario non porta sé stesso, ma Gesù, e mediante Lui l’amore del Padre!»

Infine, se ci si definisce “missionari”, ci fa bene ricordare che il missionario sempre risponde a una chiamata. Tanti sentono di voler dare il loro contributo sui social, ma occorrerebbe verificare (nella Chiesa, col proprio padre spirituale) se questo sentire è davvero una chiamata e non unicamente un’auto-chiamata.

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Cinema & teologia del corpo: Diamanti

Riprendiamo una rubrica che avevamo iniziato molto tempo fa e che ha lo scopo di rileggere alcuni “prodotti” culturali attuali attraverso le lenti della teologia del corpo. (qui trovate la rubrica dedicata)

Il film Diamanti di Ozpetek, a quanto pare, è stato il film italiano più visto del 2024 e questo ci sembra un buon motivo per spendere due parole non tanto da critici d’arte cinematografica (ovviamente non lo siamo) ma appunto per fare qualche riflessione alla luce della teologia del corpo a proposito del tema che emerge dal film.

Una delle caratteristiche peculiari della pellicola è il fatto che il regista abbia diretto un cast di 18 attrici e che le figure maschili presenti abbiano ruoli per lo più marginali o negativi, proponendosi così come un film che ha come protagonista il femminile.

La trama, infatti, si snoda nella Roma degli anni ’70, all’interno di una sartoria di alto livello che confeziona abiti di scena per il cinema e per il teatro, e che ha il vanto di lavorare con premi Oscar e famose personalità dello spettacolo. La sartoria Canova, così si chiama, è gestita da due sorelle, Alberta e Gabriella, che hanno alle loro dipendenze un nutrito gruppo di donne delle quali il film ci offre alcuni scorci della loro vita privata.

Ciò che emerge nel complesso è per molti aspetti un ribaltamento del mondo a cui siamo abituati: il sesso forte infatti è il femminile e non il maschile e ciò si riflette in tutta una serie di situazioni che vediamo “capovolte” rispetto a ciò che è stato (e per certi versi è ancora) il rapporto tra i sessi nel nostro contesto socio-culturale.

Ad esempio, in questa azienda di famiglia sono tutte donne tranne il segretario, che viene “comandato” a bacchetta da Alberta; il segretario è anche amante di una dipendente molto più anziana di lui; la “poligamia” è al femminile, vissuta da un’altra dipendente che ha una relazione con due uomini contemporaneamente; i maschi giovani e aitanti che compaiono nell’ambiente di lavoro come facchini o poco più, sono oggetto di battute a doppio senso e anche di un certo scherno che li riduce a oggetti sessuali; e infine viene commesso un “maschicidio”.

Questo ribaltamento ottiene il suo effetto perché fa riflettere, ma rischia di sembrare solo una rivendicazione da parte femminile, di un ruolo dominante che, alla fine, ricade negli stessi errori commessi dal patriarcato e dal maschio-centrismo della nostra società: prevaricazioni e ingiustizie, questa volta prevalentemente dal femminile al maschile.

Può esserci invece un altro modo?

Giovanni Paolo II afferma che nel Disegno di Dio l’essere umano è creato come maschio e femmina per vivere in comunione, ma dopo il peccato la differenza sessuale è divenuta un problema e l’essere umano si concepisce soltanto come maschio o femmina.

In questa differenza di lettera – la “e” sostituita dalla “o” – c’è un cambiamento radicale: significa che, se prima della ferita del peccato, uomo e donna erano consapevoli del dono che erano uno per l’altra, della loro pari dignità e del fatto che la loro differenza fosse per la comunione, dopo il peccato tutto ciò cambia profondamente. Appare infatti il dominio reciproco: la relazione uomo-donna cioè appare perturbata dal sospetto, dalla minaccia di appropriazione, e la differenza è vissuta come competizione e come ostacolo all’alleanza.

Giovanni Paolo II ci dice, cioè, che il patriarcato e il maschilismo (così come anche il femminismo e le sue derive) non sono solo un problema socio-culturale, ma sono innanzitutto effetti della ferita che porta il cuore umano che, se lasciato a se stesso, non è in grado di amare né di recuperare e vivere in pienezza la relazione uomo-donna, a qualsiasi livello, sia di coppia che nella società.

Ecco allora che abbiamo tutti bisogno di redenzione, cioè di lasciar trasformare il nostro cuore da Cristo perché accada in maniera autentica e profonda ciò che succede alla fine del film, ovvero che tutti i conflitti trovano una riconciliazione: le sorelle Canova riescono a condividere i propri dolori e questo permette loro di ritrovarsi e fare di nuovo squadra, la rivalità tra due attrici si risolve in una ammirazione e stima reciproca, il rapporto tra le titolari della sartoria e le dipendenti diventa sorellanza e collaborazione tanto da creare in poco tempo un abito meraviglioso per un film che sarà girato il giorno successivo.

Infine, anche il rapporto uomo – donna, che cogliamo nei personaggi della costumista e del regista, che nel corso del film hanno una furiosa litigata proprio sull’abito sopracitato, trova pace nel momento in cui Stefano Accorsi, che interpreta il regista, si rivolge a Bianca Vega, la costumista premio Oscar, senza arroganza, prepotenza o competizione, ma chiedendole con garbo e sincero interesse, la sua preziosa collaborazione.

Ecco come dovrebbe essere il rapporto uomo-donna: un rapporto di stima reciproca dove la differenza dell’altro è vissuta come arricchimento e non come occasione di prevaricazione o di competizione. Solo accogliendo il dono costituito dal contributo insostituibile dell’altro sesso, quel “film” che è la nostra vita e che è la nostra società, potrà trasformarsi in un autentico capolavoro.

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4 MODI PER FARE EDUCAZIONE SESSUALE AI TUOI FIGLI (SENZA PARLARE)

Per fortuna ci sono ancora genitori che si preoccupano dell’educazione sessuale dei propri figli.

Sebbene noi di figli non ne abbiamo, più volte ci sono stati chiesti consigli al riguardo. Le domande spaziavano da «a quale età bisogna iniziare a parlare loro di sesso» fino a «cosa dire a tuo figlio quindicenne che fa uso di pornografia». Probabilmente però la domanda più ricorrente è quella sugli strumenti: «avete del materiale che spieghi come parlare ai figli di sessualità?».

E forse il punto cruciale è proprio questo: parlarne. Ma è solo un problema di come e quando parlarne? È solo un problema di cosa dire? Vediamo di ragionarci un po’ insieme.

Intanto vale la pena sottolineare che va apprezzata questa preoccupazione da parte dei genitori.

Non è scontata: c’è chi si limita a raccomandare l’uso del preservativo (per i figli maschi) e a far prescrivere dal ginecologo la pillola contraccettiva (per le figlie femmine). E crede che sia sufficiente così, tanto al genitore in questione mica gliel’ha insegnato qualcuno come funziona quella roba lì, e tutto sommato se l’è cavata, perché non dovrebbe funzionare così anche per suo figlio/a? (che poi bisognerebbe capire cosa vuol dire che “se l’è cavata”).

E poi c’è il genitore che invece, al comparire del primo fidanzatino della figlia quattordicenne che fino al giorno prima pensava solo ai compiti e alle amiche, va nel panico totale perché il tema dell’affettività e della sessualità gli si paventa davanti all’improvviso come un mostro brutto e cattivo che si presenta senza appuntamento, ma che chiede di essere affrontato. E davanti al quale il genitore in questione si sente terribilmente disarmato.

Ancora, c’è il genitore, per lo più di estrazione cattolica, che vorrebbe tanto parlare di affettività e sessualità al proprio preadolescente o adolescente, ma proprio non sa come fare: vorrebbe trovare le parole ad effetto e gli esempi giusti per trasmettere valori, grandi proposte e ideali, ma non sa da dove cominciare, perché nessuno lo ha mai fatto con lui e l’imbarazzo lo paralizza. E quindi spera tanto che l’argomento venga affrontato in parrocchia, a scuola – a certe condizioni – insomma, spera tanto che qualcuno lo faccia al posto suo, o almeno che gli fornisca gli strumenti, le parole, un piccolo vademecum, qualsiasi cosa, per potersi barcamenare in questa impresa che sente completamente fuori dalla sua portata.

Poi ci sono i genitori che sanno esattamente come cavarsela e quindi non hanno bisogno di leggere questo articolo (o forse sì?).

Cari genitori, capiamo bene la vostra preoccupazione, ma abbiamo una buona – speriamo – notizia per voi. L’educazione sessuale dei vostri figli inizia molto, ma molto prima che il mostro di cui sopra vi bussi alla porta, e una grande parte di questa educazione non richiede sforzi o particolari competenze perché non riguarda cosa dire, né come dirlo, ma riguarda ciò che voi stessi trasmettete con la vostra vita, senza bisogno di discorsi ad effetto o parole di persuasione.

È vero, ci sono tante altre cose che i figli imparano fuori dalle mura di casa o sul web, ma la “parola fatta di carne” che vedono in voi, come singoli e come coppia, è solo vostra, e in quanto tale, insostituibile.

Ecco allora 4 punti su cui potete riflettere innanzitutto per voi stessi e poi per l’impatto che questo ha sull’apprendimento esperienziale dei vostri figli.

1) Come mi sento rispetto al tema della sessualità?

È una domanda importante perché riguarda il tono emotivo con cui, come adulto, mi approccio all’argomento. Se sono a mio agio in questa dimensione della vita infatti, sarò meno spaventato, meno imbarazzato, meno a disagio nel parlarne. Questo permette innanzitutto che la sessualità non sia un argomento tabù in famiglia, ma che possa essere un argomento di conversazione sereno, aperto, senza creare momenti di imbarazzante silenzio o una sottile sensazione di colpa o inadeguatezza. Sereno e aperto non significa rinunciare alla grande dignità e intimità che questo argomento richiede, ma far sì che non alimenti il senso del “proibito” sollecitando emozioni quali la paura (ad esempio la paura di sentire, la paura del piacere, la paura dell’altro sesso…) o il senso di colpa rispetto a sensazioni, risposte corporee, emozioni, del tutto fisiologiche e normali.

Allora, più io come singolo e noi come coppia viviamo bene questa dimensione della nostra vita, più sarà facile trasmettere un messaggio positivo ai nostri figli, un messaggio che passa soprattutto dal sentire e che rende le nostre – eventuali – parole, credibili.

2) Che uomo/che donna sono? Cosa trasmetto rispetto alla mascolinità e alla femminilità?

Educazione sessuale significa anche educare al maschile e al femminile.  È interessante e utile allora, chiedersi che messaggio stiamo trasmettendo rispetto a questo. Come donna e madre, cosa sto trasmettendo ai miei figli, femmine o maschi che siano, rispetto alla femminilità? Cosa mostro loro rispetto all’essere donna? E rispetto alla mia relazione con il maschile? Lo valorizzo o lo svaluto? Le stesse domande valgono anche al maschile, naturalmente.

È un discorso un po’ complesso e variegato ma possiamo tentare di semplificarlo con un esempio, in questo caso al femminile.

Se sono una donna che tendenzialmente subisce nella relazione e si mette sempre in disparte e in secondo piano rispetto al marito, trasmetto un certo tipo di femminilità, che ha in sé questi tratti, e che ha un impatto, per lo più inconsapevole, sui figli. Una figlia femmina, ad esempio, potrebbe ribellarsi a questo modello in maniera rigida, senza potersi mai permettere una posizione conciliante col maschile, oppure potrebbe ricreare la stessa dinamica legandosi a un uomo che la sminuisca e la “domini”.

Ma ciò non vale solo per le figlie femmine: come donna, il mio modo di incarnare la femminilità ha un impatto anche su un eventuale figlio maschio. Infatti, nel nostro esempio, ciò potrebbe condizionarlo sullo sguardo (seppur inconsapevole) che egli avrà rispetto alle donne e alla sua relazione con esse: ad esempio questo figlio, una volta adulto, potrebbe aspettarsi lo stesso atteggiamento di subordinazione da una futura compagna, proprio in quanto donna.

Insomma, il modo in cui come genitori incarniamo la femminilità e la mascolinità, fornisce dei messaggi (impliciti tante volte) su cosa significa essere un uomo e una donna, e questo è un tema fondamentale dell’educazione sessuale, oggi sempre di più.

3) Cosa mostrate/rivelate sul tema della coppia e dell’amore?

Strettamente legato al punto precedente, questo riguarda proprio la vostra relazione di coppia. Che tipo di coppia siete? Una coppia che si ama o che si sopporta? Una coppia dove ciascuno ha i propri spazi o siete una coppia fusionale? Una coppia dove c’è stima reciproca o velata indifferenza? Come vi relazionate l’un l’altro? Con affetto o con freddezza? Cosa circola tra voi rispetto alla vostra unione: rassegnazione o gioia?

Purtroppo o per fortuna tutti questi aspetti trasmettono un messaggio sulla relazione di coppia e su che cos’è l’amore.

Fare esperienza di due genitori che si amano, si rispettano, si dimostrano stima reciproca e si sostengono nei propri progetti personali, fornisce un vocabolario affettivo fondamentale per i figli, fornisce loro un paradigma interiore incancellabile che rimane, nonostante tutti gli altri messaggi che incontreranno nella loro vita. Rimarrà loro dentro l’impronta di come il padre guardava con ammirazione la madre, di come la madre si rivolgeva con tenerezza al padre, di come, per amore, lui si faceva carico di un lavoro domestico e di come lei lasciava a lui, per amore, dello spazio personale per ricaricare le batterie.

In questo caso, l’esperienza che i vostri figli fanno, li tocca molto più di qualsiasi discorso ben confezionato.

4) Come esprimete l’amore attraverso il linguaggio del corpo?

Diretta conseguenza del tema precedente, ma non solo, è l’espressione dell’affettività, soprattutto per quanto riguarda i gesti. Ad esempio, fare esperienza di un padre che non ha paura di abbracciare, accarezzare o baciare la propria donna (e i propri figli naturalmente, ma questo è un altro piano) è una trasmissione fondamentale che passa dal comportamento e non dalle parole. Spesso, quando manca, i figli faticano a farlo a loro volta, e non è questa una parte importante dell’educazione alla sessualità? I gesti della sessualità non sono solo quelli che riguardano il rapporto sessuale: la sessualità è fatta di tantissimi altri gesti quotidiani, che nutrono la coppia di tenerezza, intimità e complicità, e che sono quindi “i preliminari dei preliminari”.

Troppo spesso forse la preoccupazione educativa sembra rivolta solo ai gesti specifici dell’intimità sessuale e non diamo abbastanza importanza all’educare ad esprimere l’amore: questo è parte integrante e basilare di una vera educazione sessuale, che riguarda tutta la persona e tutta la sua capacità di esprimere l’amore con il linguaggio del corpo.

In conclusione, cari genitori, è una bella attenzione verso i vostri figli la preoccupazione nei confronti della loro educazione sessuale. E capiamo la vostra apprensione sul cosa dire loro. Tuttavia abbiamo voluto sollevare questi quattro punti perché troppo spesso la preoccupazione è solo per ciò che i figli respirano fuori casa su questo tema, ma a nostro avviso non si è altrettanti attenti a cosa invece è in vostro potere dentro casa.

Con questo, se non vi sentite dei grandi esempi per i vostri figli, non vogliamo farvi sentire in colpa o sbagliati: sappiamo molto bene che tutti noi abbiamo fatiche, ferite e difficoltà sia personali che di coppia. E sappiamo anche che la realtà è complessa e variegata, e che nessuno vive in una famiglia ideale, anzi.

Il nostro intento è stimolare una riflessione: crediamo infatti che la cosa importante sia sapersi mettere in discussione e non rinunciare a crescere insieme ai propri figli, qualunque sia la nostra situazione di vita.

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La sottile differenza tra INCLUSIONE e COMPIACENZA

Oggi sempre più spesso negli ambienti cristiani si sente risuonare la parola “inclusione”, e in nome dell’inclusione si moltiplicano le iniziative, si lanciano proclami, si elaborano teologie ed idealismi e ahimè sempre più spesso ci si divide.

A questo proposito, non di rado, vanno in scena confusi “teatrini” in cui si schierano da un lato coloro che, in nome dell’inclusione, con ritrovato entusiasmo, aprono le porte a tutti, mossi dal nobile intento di accogliere e non far sentire sbagliato nessuno e dall’altro quelli che, di fronte a questa apertura indiscriminata, non senza un pizzico di indignazione, mettono in guardia sul fatto che così facendo si finisce per svendere ed annacquare l’autentico annuncio cristiano.

Chi ha ragione? Chi ha torto?

La nostra impressione è che, forse, né gli uni né gli altri fratelli abbiano davvero colto l’autentico senso cristiano dell’inclusione.

Partiamo da un punto fermo: l’inclusione è senz’altro un importante valore su cui anche papa Francesco ha più volte insistito dopo anni nei quali spesso, come Chiesa, ci siamo purtroppo atteggiati a club privato e abbiamo finito per comportarci come una dogana, come controllori della grazia e non come facilitatori di essa. (cf. EG, 47)

Ecco una breve citazione che rende l’idea:

«Il Vangelo ci chiama a riconoscere nella storia dell’umanità il disegno di una grande opera di inclusione, che, rispettando pienamente la libertà di ogni persona, di ogni comunità, di ogni popolo, chiama tutti a formare una famiglia di fratelli e sorelle, […] e a far parte della Chiesa, che è il corpo di Cristo». (udienza del 12/11/2016)

Il fatto è che spesso finiamo per mettere il “vino nuovo” dell’inclusione in “otri vecchi”. Ovvero in un’idea di Chiesa un po’ superata. L’impressione è insomma che entrambe queste posizioni continuino, senza rendersene conto, a considerare la Chiesa una specie di club privato.

I primi, mossi non di rado anche da un certo senso di colpa per essere parte di una Chiesa severa e retrograda e da un pizzico di frustrazione per essere rimasti un gruppetto sparuto e poco attraente, sembrano rispolverare sogni di gloria e, in nome dell’inclusione, spingono per allargare i criteri di tesseramento: «Perché io sì e loro no?» e alla voce “loro” ognuno può scegliere quale categoria inserire (conviventi, divorziati, omosessuali, transgender…). E pur di essere aperti, capita poi che si finisca per riadattare l’annuncio evangelico su nuove esigenze, per elaborare nuove antropologie più inclusive e, perché no, per promettere imminenti cambiamenti del magistero.

I secondi invece, da intransigenti defensor fidei, come reazione opposta a queste derive inclusive, più che porsi come fratelli in cammino, si trasformano in arbitri inflessibili, in controllori della grazia, mirando a conservare rigidi criteri di adesione al “club cattolico”.

I primi, con un certo lassismo, finiscono per leggere l’inclusività e l’accoglienza come una necessità di riforma dell’annuncio cristiano, i secondi invece, con rigorismo, interpretano l’annuncio evangelico come un insieme di norme che regolano l’inclusione.

Tutti però dovremmo ricordarci del fatto che non è il vangelo a doversi fare più inclusivo bensì il nostro cuore!

Così diceva qualche anno fa papa Francesco: «Né il lassista né il rigorista rende testimonianza a Gesù Cristo, perché né l’uno né l’altro si fa carico della persona che incontra. Il rigorista si lava le mani: infatti la inchioda alla legge intesa in modo freddo e rigido; il lassista invece si lava le mani: solo apparentemente è misericordioso, ma in realtà non prende sul serio il problema di quella coscienza, minimizzando il peccato. La vera misericordia si fa carico della persona, la ascolta attentamente, si accosta con rispetto e con verità alla sua situazione, e la accompagna nel cammino della riconciliazione». (discorso del 6/03/2014)

Troppo spesso, infatti, dimentichiamo un dato antropologico fondamentale: Nessuno è sbagliato, ma tutti siamo feriti. (per approfondire si veda qui l’articolo che abbiamo scritto a questo proposito)

Come ci ricorda il libro della Sapienza: «Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata». (Sap 11, 24)

Dio è misericordia e compassione, egli non chiude mai le braccia verso nessuno perché siamo suoi figli, lui ci ha chiamato alla vita. Ma troppo spesso dimentichiamo quello che viene detto nel versetto precedente: «Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento». (Sap 11, 23)

Dio non solo ci accoglie, ma aspetta il nostro pentimento. Ed è proprio su questo punto che facciamo acqua da tutte le parti. Troppo spesso infatti, chi accoglie dall’interno, sentendosi nel giusto, finisce per trasformare l’accoglienza in compiacenza, così come, troppo spesso, chi chiede di essere accolto finisce purtroppo per pretendere compiacenza e riconoscimento invece di cercare un reale cammino cristiano.

Per gli uni e per gli altri il primo e fondamentale dato da accogliere è che siamo tutti feriti, tutti segnati da quel Peccato con la “P” maiuscola che ci fa centrare su noi stessi fino a porci al posto di Dio! Tutti portiamo questa ferita, tutti! Se non ripartiamo insieme da qui, dal nostro essere feriti e bisognosi di redenzione a cosa serve l’inclusione? A cosa serve accogliere o non accogliere? A cosa serve essere accolti?  

La Chiesa non è un partito politico, un movimento, un club di tesserati, nella Chiesa c’è spazio per tutti perché è la “Famiglia di Dio”, che riconosce la sua miseria e si mette in cammino perché la sua vita sia trasformata, sia trasfigurata, sia resa sempre più somigliante a quella di Cristo.

Il punto, quindi, non è stabilire se i miei peccati sono più o meno gravi di quelli di una persona omosessuale o di una persona transgender, il punto non è riadattare il magistero per renderlo più inclusivo. Il punto è che siamo tutti bisognosi di guarigione e di metterci in un cammino di verità per accogliere Dio come Padre e lasciare che sia Cristo, Verbo fatto carne, a rivelarci la nostra vera identità, la nostra vera chiamata!

Solo la misericordia di Dio può tirarci fuori dalle nostre morti e portare Vita alla nostra vita. Ma, come abbiamo già detto nell’articolo citato in precedenza, ciò diventa possibile soltanto se prima accogliamo i nostri “piedi sporchi” e permettiamo a Cristo di chinarsi su di noi per lavarceli.

Che tu sia separato, o sposato da trent’anni, che tu ti senta una donna compiuta o che tu non ti riconosca nel tuo corpo, che tu viva una relazione omosessuale o una eterosessuale, per tutti, la prima e fondamentale chiamata è quella ad accogliere il mistero Pasquale di Cristo, ad essere disposti a morire a noi stessi, a perdere le nostre vie, per lasciare che sia Cristo a rivelarci la via della Vita!

Nessuno è sbagliato, ma tutti siamo feriti

Durante una lezione alla facoltà teologica che ho frequentato, un professore, all’interno di una più ampia riflessione sulla necessità di nuovi modi di comunicare la fede, disse provocatoriamente: «oggi la categoria di peccato originale è superata! Non ha più senso parlare di peccato originale alle persone di oggi, nessuno ci capisce più».

In questa provocazione certamente c’era del vero: «nessuno ci capisce più!» Il peccato originale con i suoi effetti è ormai tra i grandi sconosciuti per i cristiani di oggi, eppure costituisce la grande ferita di ogni cuore umano

A ben vedere, già sul peccato personale in senso stretto, non siamo messi molto bene.

Tendenzialmente, infatti, la stragrande maggioranza di noi cresce con l’idea che il peccato sia un’azione, un comportamento sbagliato che viola la legge di Dio. Questa lettura è diffusissima nella formazione catechistica dei bambini, ma amici sacerdoti ci confermano che, dalle confessioni, traspare come questa resti l’idea di fondo anche per molti adulti. Proprio questa lettura del peccato personale conferma che abbiamo le idee molto confuse su che cos’è il peccato originale e che non abbiamo viva esperienza della redenzione di Cristo.

La questione è seria e il professore di cui sopra ci perdonerà se, invece, tentiamo di dire qualcosa su come la ferita del peccato originale riguarda la nostra vita e sul perché, senza accogliere questa realtà, di fatto non possiamo comprendere pienamente noi stessi, né aprirci alla redenzione di Cristo.

Non entriamo qui nel ginepraio relativo alla genesi del peccato originale e a come si sia propagato nella storia dai progenitori fino a noi, anche perché occorrerebbe una lunga e approfondita esegesi del testo biblico. Ci basti sapere che il testo di Genesi 3 in cui tutto ciò viene narrato, è un testo che non vuole raccontare la cronaca dettagliata dei fatti avvenuti all’inizio della storia umana, ma è un racconto di carattere sapienziale che ha lo scopo di riflettere, attraverso un linguaggio mitologico, sull’origine del male e della morte che tocca l’umanità.

La tradizione cristiana ci insegna che il peccato originale riguarda la condizione umana. La nostra natura umana è ferita! Piaccia o meno c’è qualcosa di rotto! Ognuno di noi porta in sé una frattura in quattro direzioni: nel rapporto con Dio, nel rapporto con se stesso, nel rapporto con l’altro sesso e nel rapporto con la creazione. Non ci viene spontaneo relazionarci serenamente con Dio, né con noi stessi, né con l’altro sesso, né tantomeno con il mondo.

Nel vangelo Cristo parla di «durezza di cuore»: il cuore che biblicamente è l’organo centrale e unificante della persona, sede della volontà e della coscienza appare come bloccato, incartato su se stesso, incapace di svolgere appieno la sua funzione unificante verso il bene.

Ma dice anche che la durezza di cuore non è la nostra verità: «in Principio non fu così». C’è stata una rottura. L’umanità non era stata creata così, non è stata pensata per ripiegarsi su se stessa, per chiudersi nell’autosufficienza, ma per essere immagine di Dio, per esistere secondo Dio, per gustare ed esprimere l’Amore.

La nostre offuscate reminiscenze catechistiche potrebbero giustamente obiettare: ma il Catechismo non insegna che il Battesimo cancella il peccato originale?

Sì, è vero il Battesimo donandoci la vita nuova di Cristo cancella il peccato originale, ma il Catechismo dice anche che continuiamo a portare in noi le conseguenze del peccato che si manifestano nella nostra natura indebolita (CCC, 405).

Ciò significa che attraverso il sacramento del Battesimo siamo stati riconciliati con Dio e in Cristo ci è stata donata la vita nuova dei figli di Dio, ma non è che magicamente ci trasformiamo in supereroi! In noi viene piantato un germe di vita divina che va custodito e fatto crescere in una continua tensione tra la nostra umanità ferita e fragile e la vita filiale che cresce dentro di noi.

Non possiamo allora non prendere sul serio la realtà di questa ferita che ci portiamo dentro e che la tradizione chiama: “concupiscenza”.

Lo so, è un parolone in disuso che “puzza di sacrestia” lontano un miglio, ma che rivela potentemente questa nostra condizione: il nostro essere come su un piano inclinato che ci porta istintivamente a preoccuparci prima di tutto per noi stessi, per la nostra soddisfazione e autosufficienza.

L’apostolo Giovanni parla di tre forme di concupiscenza (1Gv 2, 16) ognuna delle quali racchiude una marea di sfaccettature diverse.
La concupiscenza degli occhi ovvero il possesso, il prendere per noi stessi; la concupiscenza della carne, ovvero l’usare la sessualità non nel suo significato di dono per la comunione, ma per la nostra autogratificazione; e la superbia della vita, ovvero l’affermare noi stessi e le nostre ragioni sopra ogni cosa.

A volte possono sembrare cose distanti da noi, cose che fatichiamo a riconoscere nella nostra vita ordinaria, eppure, andando in profondità, possiamo scoprire sfumature che ci toccano molto da vicino.

Giovanni Paolo II ad esempio, nelle sue catechesi, riflettendo sulla concupiscenza della carne, ha voluto soffermarsi su due aspetti molto concreti ed attuali. Da un lato, il fatto che la concupiscenza oscura nel cuore umano il significato della differenza sessuale per cui la relazione tra maschio-femmina diviene problematica, non più terreno spontaneo di comunione, ma di conflitto e di dominio. Dall’altro il fatto che la concupiscenza porta con sé la frammentazione interiore dell’essere umano che sperimenta una «quasi costitutiva difficoltà di immedesimazione col proprio corpo» così che, sebbene nasciamo come maschi e femmine, non ci viene spontaneo maturare come uomini e donne.

Questa insomma è la situazione: C’è qualcosa di rotto in noi, siamo feriti! …feriti su più livelli!
Ma non è tutto, perché questa è solo metà della storia!

Infatti, se è vero che siamo feriti, è ancor più vero che siamo salvati, che siamo redenti! In Cristo ci è data la vita e la libertà vera e sempre ci è offerta la possibilità di passare dal peccato alla verità, dalla morte alla vita. Il germe della vita nuova piantato in noi nel Battesimo piano piano cresce e nel farsi spazio va a toccare e a portare alla luce quelle storture che ci portiamo dentro.

E qui sta la cosa più difficile: accogliere quella luce, ammettere a noi stessi che in noi qualcosa non va, che siamo bisognosi, che abbiamo bisogno di conversione.

Lo so per esperienza, da ex-perfezionista incallito quale ero (e in parte sono ancora), so che non è facile ammettere a se stessi che qualcosa non va! C’è sempre una parte presuntuosa di noi che si ribella ed emerge impetuosa la nostra profonda fobia di sentirci sbagliati. Una parte di noi rigetta l’inquietudine, ha pretese di autosufficienza, è affamata di rassicurazioni e conferme per cui non accetta di mettersi in discussione. Ma se le diamo retta ci chiudiamo alla Vita!

Se non accettiamo di essere rotti, se diciamo a noi stessi: «va bene così», «in me non c’è niente che non va», «sono fatto così», «il problema sono gli altri, il problema è la rigidità della Chiesa»… il nostro cuore si chiude nella durezza, si irrigidisce e non lascia spazio di crescita al germe della vita nuova in noi.

Allora non facciamoci fregare dal nostro orgoglio, accettiamo di essere rotti, di essere feriti!

Vale la pena essere feriti perché in quelle ferite Cristo vuole visitarci e portare guarigione. È soprattutto nelle nostre ferite e nelle nostre miserie che possiamo sperimentare la tenerezza di Dio.
È quello che è successo ai Santi. I Santi non sono supereroi, ma persone che hanno lasciato entrare Cristo nelle loro miserie.

La Pasqua che si avvicina ci insegna proprio questo: il Giovedì Santo leggeremo il brano del Vangelo di Giovanni sulla lavanda dei piedi. Cristo è attratto dai nostri piedi sporchi, non si schifa, si china per lavarceli perché ci ama e siamo preziosi ai suoi occhi! Non facciamo l’errore di Pietro, accogliamo i nostri piedi sporchi e accogliamo la tenerezza di Dio che non si stanca di lavarceli e medicarceli.

Lui vuole fare Pasqua con noi, perché nessuno di noi è sbagliato, semplicemente tutti siamo feriti!

ANNO NUOVO, VITA NUOVA

Al termine di questo anno non potevamo non ringraziare Maria, che ci ha accompagnati così da vicino, mettendo la sua firma sulle scelte importanti e tormentate che proprio in questi ultimi mesi si sono concretizzate: una in ritardo, l’altra in anticipo, ma entrambe puntuali rispetto al suo farsi presente.

Non vogliamo fare i misteriosi, a cosa ci riferiamo?

Vogliamo testimoniare brevemente quanto abbiamo sperimentato in questi ultimi mesi, anzi anni, con la speranza di non svilire troppo quanto abbiamo vissuto, ma rischiando tuttavia, perché crediamo che vedere Dio all’opera sia sempre di aiuto e sostegno alla fede. 

Partendo daccapo: il 27 novembre 2020 viene accettata la nostra offerta per una piccola proprietà da ristrutturare. Ci rendiamo conto che è la festa della medaglia miracolosa, a cui avevamo letteralmente affidato questa scelta, gettando una medaglietta nel giardino di questa casa, così come faceva Madre Teresa. Questo segno ci rassicura, ma da quel momento sono passati quasi 3 faticosi anni in cui ci siamo chiesti più volte se fosse la scelta giusta: sarà “giusto” spendere tutti questi soldi per una casa? Siamo sicuri che sia questa la volontà di Dio per noi? Perché accollarsi un mutuo quando si sta così bene senza? Perché proprio nel nostro solito paesello? Queste e altre domande si sono riproposte più volte e per la maggior parte di esse ancora non abbiamo la risposta, ma è stato chiaro che in questo processo il Signore ci ha chiesto di fidarci di Lui, ci ha fatto crescere, ci ha mostrato le nostre fragilità, ma ci ha anche mostrato la sua Provvidenza. E il 7 ottobre scorso abbiamo finalmente traslocato, con grande ritardo, ma anche con grande gioia quando ci siamo resi conto che il 7 ottobre è anche la festa della Madonna del Rosario. Maria è stata con noi dall’inizio alla fine e come ha detto un nostro amico frate, questa casa è qualcosa che ha voluto lei… Il perché lo scopriremo con il tempo, intanto ci affidiamo a lei e ci godiamo la certezza di avere una mano materna che si prende cura di noi. 

25 marzo 2022, festa dell’Annunciazione, durante un colloquio con il nostro padre spirituale, dopo alcuni anni di interrogativi, inizia un tempo di discernimento sul lavoro di Tommy. La domanda principale è: come poter dare più spazio al nostro ministero nella nostra vita? Ci sarebbero tante cose da dire, ma quella più importante è che, se si lascia spazio alla Spirito, davvero ciò che sembra impossibile diventa possibile. Ma ciò non accade nella realtà, se prima non è avvenuto nel nostro cuore. È lì infatti che deve avvenire l’impossibile: l’impossibile che è fidarsi, che è accettare di andare oltre i propri calcoli, le proprie paure, le proprie resistenze, le proprie sicurezze. Fatto questo, allora la strada si apre, non senza fatiche, ma con tante conferme. E infatti ciò che doveva avvenire tra diversi mesi, per una grande creatività della Provvidenza, è già avvenuto, e la conferma è arrivata il 12 dicembre, giorno della Madonna di Guadalupe. Insomma, per farla breve, il 22 dicembre è stato per Tommy l’ultimo giorno di lavoro da ingegnere, il futuro è tutto da scrivere. 

Pregate per noi, grazie!

Una gioventù sessualmente… impotente

Ho la fortuna di fare un bellissimo mestiere che mi dà il privilegio di ascoltare ciò che spesso nessun altro ha mai ascoltato, di conoscere in profondità persone diversissime tra loro, di poter scorgere quello che c’è di più autentico dietro le maschere, i ruoli e gli atteggiamenti culturalmente mainstream.

Le persone che ascolto con più frequenza sono giovani under 30, e considero una grande opportunità il fatto che tra questi, la maggior parte non sia cattolica. Sono giovani del mondo e, da quello che fa l’operaio a quella che frequenta l’università, con tanto di collettivi universitari e attivismo di vario genere, hanno in comune un fatto: vivono la loro sessualità in maniera “libera” appunto, senza i condizionamenti della morale cattolica riguardo a castità, rapporti prematrimoniali, ecc.… e me ne parlano. Mi raccontano di come è davvero la sessualità vissuta così. Protetti dal non giudizio di quella che qualcuno chiama “la stanza delle parole”, hanno il coraggio di aprirsi e di dire ad alta voce con onestà come si sentono e cosa pensano.

È interessante il fatto che spesso, queste “confessioni” che fanno a se stessi più che a me, siano accompagnate da un certo senso di inadeguatezza. Mi spiego.

Dal cuore delle ragazze emerge quasi sempre il desiderio di una relazione profonda, intima, che sia emotiva ed affettiva, non solo sessuale; emerge il desiderio di essere scelte, magari non per tutta la vita, (dando quasi per scontato che prima o poi ci si lascerà) ma di certo è presente il desiderio di essere scelte per il tratto di vita che passeranno con quella persona. La cosa curiosa a questo punto è che, subito dopo aver espresso queste cose, si sentono quasi in dovere di giustificarsi: ci provano a dividere sesso e relazione ma, nella maggior parte dei casi, non ci riescono e, immaginando invece che per tutte le altre sia facile, si sentono inadeguate o sbagliate a causa di questo loro sentire. Ci provano a vivere “relazioni aperte”, l’ultima frontiera della libertà e dell’emancipazione, ma anche in questo caso ammettono, quasi come fosse una colpa, che non fa per loro.

I maschi, di contro, fanno tenerezza perché si ritrovano spesso incastrati nel ruolo che la società affibbia loro, ovvero di quelli che devono performare, sempre disponibili al sesso, e di conseguenza sono preda anche del nuovo ruolo, molto attivo, che assumono le ragazze, dando per scontato – vedi sopra – che ai ragazzi piaccia così.

In realtà, spesso i ragazzi confessano di essere spiazzati dall’intraprendenza femminile, e questo causa loro anche episodi di disfunzioni sessuali. Recentemente un ragazzo, raccontandomi proprio di come avesse fatto “cilecca” ad un primo appuntamento in cui non aveva per nulla messo in conto il sesso, mi ha detto: “non me lo aspettavo, non lo avevo previsto, ma mi sono detto vabbè non fare lo sfigato, approfittane, ma il mio corpo non è stato d’accordo”.

Già, perché tu puoi provare a usare il tuo corpo come ti pare, ma il corpo non è solo un corpo, non è una macchina da usare a tuo piacimento, non è solo una funzionalità biologico-meccanica. Il tuo corpo è molto di più, non è qualcosa, è qualcuno: tu, per la precisione. Ogni fibra del tuo corpo è inscindibile da ciò che vibra nella tua interiorità, nelle tue emozioni, e in tutto ciò che ancora non conosci di te ma esiste.

Proprio per questo le cose non vanno come ti aspetti: credi di poter approfittare di quella ragazza così disponibile, e invece ti ritrovi a perdere l’erezione; vuoi a tutti i costi avere la tua prima esperienza sessuale con un ragazzo per non sentirti diversa dalle tue amiche, ma poi scopri che quell’atto ti fa male fisicamente, provi dolore invece che piacere, e ti chiedi come mai.

E allora si arriva all’effetto paradossale: pensando di poter vivere la sessualità in maniera libera e fluida, svincolata da se stessi e dalla relazione con l’altro, all’opposto si diventa maschi e femmine sessualmente impotenti, cioè non in grado di viverla pienamente; pensando che non ci siano limiti nell’usare la propria sessualità, in realtà ci si ritrova limitati, a partire dal fatto molto concreto di non riuscire ad avere rapporti completi e quindi anche arrivando ad evitarli per non incorrere in nuove delusioni e frustrazioni.

Ma attenzione, non aspettatevi a questo punto, di contro, un elogio della castità tout court, un’apologia della morale cattolica che quella sì, che è garanzia di una buona sessualità.

No, dipende. Infatti, accanto ai giovani libertini c’è un’altra categoria che, per ragioni diverse, si trova impantanata nelle stesse difficoltà. E non solo per quanto riguarda la sessualità agita ma ancora prima, nel rapporto con questo aspetto così importante – se non fondante – della vita: infatti, anche attraverso il ministero che svolgiamo nella Chiesa, parlando con le persone, incontriamo non di rado blocchi, paure, rigidità, evitamenti, che interferiscono nelle relazioni ben prima di arrivare a vivere la sessualità in camera da letto.

Ci stiamo riferendo alla categoria di giovani, figli di una certa educazione religiosa – dannosa – che purtroppo esiste ancora: quella in cui il corpo è negato e la sessualità è taciuta quasi fosse qualcosa da temere o di cui vergognarsi o semplicemente da tollerare per certi fini.

Purtroppo ci capita ancora di riscontrare come spesso l’educazione sessuale sia trattata solo al livello di ciò che si può e non si può fare. In questo modo però, pur con le più buone intenzioni, la sessualità viene ridotta ad una funzionalità da gestire, ad un atto, il rapporto sessuale, che coinvolge solo una parte di noi, gli organi genitali.

Il problema è che la sessualità è molto di più: è molto di più di ciò succede in camera da letto, è molto di più di un comportamento, è molto di più dell’incontro di due organi sessuali. Quindi non possiamo trattarla come qualcosa che è possibile disattivare o mettere sottochiave per un periodo e poi riattivare quando ci sono le giuste condizioni (magari nel matrimonio) aspettandoci che tutto funzioni spontaneamente. Ne rimarremo immancabilmente delusi.

La sessualità inizia molto prima e non riguarda solo il fare, ma abbraccia tutta la persona, anche il pensare e il vissuto emotivo e relazionale. Ad esempio: come penso al mio corpo e a quello dell’altro? che valore do alla sessualità? che rapporto ho con il piacere? Come integro questo aspetto della mia vita in ciò che sono e nelle relazioni che vivo?

Insomma, la provocazione è questa: attenzione a cosa e come comunichiamo su questo argomento noi cattolici, perché rischiamo di provocare altrettante “vittime” tante quante ne sta facendo la rivoluzione sessuale, anzi, a ben vedere lo abbiamo già fatto per tanti anni in passato. E rischiamo anche di ritrovarci con gli stessi errori di fondo: separare la sessualità dal resto della vita come se fosse una dimensione accessoria a sé stante, ridurla ad un mero gesto che coinvolge solo la genitalità, finendo così per svilire a nostra volta questo grande dono di Dio, che racchiude il mistero della nostra identità e del nostro destino.

Ma allora come fare se sia l’assenza che la presenza di regole in campo sessuale sembra avere effetti nefasti sulla vita dei giovani? Come parlare di sessualità? Cosa dire?

Rispetto al come siamo sempre più che convinti che se non ci si è riconciliati con questa dimensione fondante della vita umana, meglio tacere, se no, insieme alle nostre parole, trasmetteremo inevitabilmente anche tutte le nostre irrisoluzioni.

Sul cosa, da parte nostra possiamo dire che, di tutti gli approcci che abbiamo incontrato, soltanto la teologia del corpo di San Giovanni Paolo II ci sembra in grado di offrire una visione unitaria capace di tenere insieme tutte le dimensioni della persona, capace di conciliare la verità con l’esperienza, la bellezza della sessualità e il bene della persona, i desideri profondi del cuore e la realtà ferita dello stesso cuore umano, proponendo un cammino non motivato da giudizio, moralismi e rigidità, ma solo dalla bellezza che il cuore intuisce. Una bellezza a cui il cuore di tutti – cattolici e libertini- anela, anche se molto spesso non lo sa.

P.S. Giunti alla fine di questo articolo ci rendiamo conto che il tema richiederebbe molteplici approfondimenti (che speriamo saranno oggetto di articoli futuri) queste sono solo alcune suggestioni generali, ma crediamo valga la pena iniziare da qualche parte.