Fidanzamento casto o bigotto?

Qualche sera fa abbiamo avuto il piacere di passare una serata con gli amici di CattOnerD e siamo stati talmente bene che ci sembrava di essere seduti insieme nello stesso pub per bere e chiacchierare in compagnia.  Il tema era la castità e ne abbiamo parlato in modo libero e spontaneo.

Grazie anche alle interazioni col pubblico prima, durante e dopo la diretta, abbiamo colto come questo tema sia tutt’altro che fuori moda, ma susciti ancora tanti interrogativi e curiosità.

Abbiamo pensato allora di raccogliere qui qualche idea che ci è particolarmente cara, sperando di essere più ordinati e chiari nell’esposizione, e anche un po’ più sintetici, dal momento che la diretta è durata più di due ore e non è detto che tutti abbiano voglia e tempo di riguardarsela (peccato perché c’è da divertirsi ma soprattutto c’è una chicca finale che non vi potete perdere!).

Inizieremo innanzitutto dal dire che cosa NON è la castità.

La castità non è il patentino del bravo cattolico, non è arrivare illibati al matrimonio, non è svalutare la sessualità e il piacere, e non è nemmeno un banale “astenersi”.

Ovvero, detto in altre parole, se abbiamo inteso finora la castità come una regola da applicare o come una “negazione” di una parte di noi, non siamo sulla strada giusta, anzi.

Ce ne siamo accorti anche noi che da fidanzati abbiamo cercato di seguire il “vademecum del perfetto fidanzamento cattolico” e quindi magari sì, se vogliamo guardare alla castità con uno sguardo superficiale, possiamo dire di essere riusciti ad arrivare al matrimonio con la spunta più o meno verde in merito a questo punto, peccato che avessimo capito poco o nulla del suo vero significato.

Conoscevamo e condividevamo le ragioni razionali per cui valeva la pena aspettare il matrimonio per donarsi totalmente (perché se no ti leghi e non sei libero di capire se è la persona per te, perché solo nel matrimonio ti giochi realmente la vita, ecc…), e abbiamo quindi cercato di fare del nostro meglio per stare nelle regole. Questo però ci faceva sentire “a posto”, “bravini”, innescando in noi un certo senso di superiorità e facendoci perdere di vista che il cuore della castità non è tanto rimandare il dono di sé nel corpo, quanto imparare con gradualità a donarsi totalmente senza maschere e ad accogliere totalmente l’altro per come è.

Ed è così che ci siamo ritrovati sposati con il pedigree in ordine, ma ancora molto immaturi, chiusi su noi stessi e carichi di pretese verso l’altro. E ci infastidiva vedere accanto a noi coppie probabilmente meno scrupolose sul piano sessuale, eppure molto più capaci di amarsi e rispettarsi di noi.

Insomma, non avevamo capito la cosa più importante, ovvero che la castità non è sottrattiva ma additiva: non è per privarci di qualcosa ma per aprirci a qualcosa di più grande, di più pieno, di più bello.

La castità in questo senso è l’arte di imparare ad amare nella verità: se non serve ad insegnarci ad amare non serve a nulla.

A che serve arrivare al matrimonio senza aver “consumato”, quando lui non disdegna sbirciatine più o meno prolungate a pornografia o simili, e quando lei si compiace delle attenzioni del collega? L’ipotetica coppia in questione forse metterà il “bollino castità” sulla tessera del bravo cattolico, ma non si può certo dire che ne abbia compreso il senso.

Ma anche la giovane coppietta che si impegna a non avere rapporti prematrimoniali, ma guarda al matrimonio come all’outlet del piacere in cui soddisfare ogni fantasia erotica, non pare essersi troppo sintonizzata sul mistero della castità.

Allo stesso modo anche la coppia che sceglie la castità (leggi astensione dai rapporti) perché fornisce un comodo alibi per non affrontare i loro problemi e le loro paure riguardanti la sessualità, non sta certo vivendo un fidanzamento casto.

Ciò che vogliamo dire è che non basta seguire determinate regole per essere casti. Per quanto tenaci ed intransigenti, non sarà il rispettare una regola che ci insegnerà ad amare. Le regole possono essere un ausilio, ma non dobbiamo dimenticare che in noi amare non è una cosa che viene spontanea. La nostra sessualità (e con essa la nostra capacità di amare) è ferita dagli effetti del peccato originale, ovvero dalla concupiscenza. In ognuno di noi, piaccia o meno, c’è come un’inclinazione a prendere più che a donare, a mettere davanti noi stessi prima degli altri, un’inclinazione che ci porta ad avere uno sguardo frammentato sull’altro.

Comprendiamo quindi che il problema vero non è tanto fare o non fare sesso prima del matrimonio, il problema vero è il nostro cuore (e quindi il nostro sguardo, i nostri pensieri ecc..) che ha un profondo bisogno di redenzione, di guarigione, di essere progressivamente liberato e purificato.

In questo senso, la castità non è solo un obiettivo da coltivare con le proprie scelte e con il proprio impegno, ma è soprattutto un dono di Dio, un dono da chiedere e da accogliere.

La castità allora è un cammino che dura tutta la vita, dove si intrecciano la nostra volontà e le nostre decisioni da una parte, e l’accoglienza della vita nuova dall’altra, la vita redenta che Cristo è venuto a portarci affinché un po’ alla volta il nostro cuore sia purificato, il nostro sguardo sia limpido, il nostro donarci sia sincero, il nostro amare sia “integro” e possiamo desiderare niente meno che il bene.

Oggi possiamo dirlo: riguardo alla castità non ci hanno convinto i ragionamenti, non ci hanno convinto le motivazioni per quanto comprensibili e “laiche”… riguardo alla castità, e oltretutto quando eravamo già sposati, ci hanno convinti la bellezza e la pienezza, quelle che abbiamo trovato nella teologia del corpo.

La castità infatti, svincolata da un discorso più ampio su chi sono io, che significato attribuisco alla mia sessualità, al mio corpo e alla mia vita, rischia di essere fatalmente fraintesa.

Insomma, la castità è un cammino che forse non finiremo mai di percorrere del tutto, quel cammino da cui però ciascuno di noi, qualsiasi sia il suo stato di vita, può sempre ripartire per imparare ad orientare il proprio desiderio sessuale verso l’autentica dignità della persona e la verità dell’amore, fino a dire: “Sono tutto per te”, “Sono tutta per te”, fino ad essere totalmente donato, anima e corpo.

Il vescovo che non aveva paura a parlare di sesso

Dopo aver celebrato i sessant’anni dell’opera teatrale La bottega dell’orefice, ci soffermiamo su un altro capolavoro di San Giovanni Paolo II, il suo primo libro: Amore e Responsabilità che quest’anno spegne anch’esso ben 60 candeline. Si tratta di due opere tra loro diversissime eppure intimamente collegate: come attesta infatti il suo biografo George Weigel, Amore e Responsabilità costituisce il complemento filosofico ai problemi indagati nel dramma teatrale La bottega dell’orefice.

Karol Wojtyła non fu mai un pensatore da biblioteca, la sua produzione intellettuale nasceva sempre dal travaglio dell’esperienza pastorale con i giovani e le famiglie.

Il tempo speso con i giovani nelle gite in montagna, nella preparazione al matrimonio, nella direzione spirituale e nel confessionale avevano convinto il giovane vescovo che l’etica sessuale della Chiesa esigesse una nuova elaborazione. Occorreva accogliere le domande che risuonavano in quei giovani cuori e consentire loro di scoprire il senso profondo dell’amore sessuale.

Negli ambienti ecclesiali dell’epoca (siamo prima del Concilio Vaticano II), a parte rare eccezioni, riguardo al matrimonio era ancora diffuso un approccio pastorale di stampo giuridico che insisteva sui “fini del matrimonio” (un fine primario, la procreazione e due fini secondari: mutuo aiuto e rimedio alla concupiscenza). Si trattava di un approccio centrato quasi esclusivamente sulla norma che però trascurava l’esperienza e la storia concreta delle persone, insomma un atteggiamento molto più preoccupato delle proibizioni che dell’amore.

Questa modalità pastorale purtroppo si prestava ad essere intesa (e spesso lo era) come una svalutazione dell’amore sessuale e dell’affetto tra gli sposi, e contribuiva ad alimentare un certo sospetto verso il corpo, la sessualità ed il piacere.

Wojtyła si rendeva conto che di fronte alla cultura che si stava diffondendo nel modo occidentale, occorreva una risposta ben diversa da quanto sin lì proposto. Sapeva bene che l’accompagnamento spirituale non poteva limitarsi a comandi e proibizioni, ma richiedeva l’arte di interpretare e spiegare l’insegnamento evangelico sulla sessualità nelle concrete situazioni della vita, attraverso un approccio in grado di valorizzarne la bellezza e la prospettiva di pienezza.

L’occasione di scrivere un’opera a questo riguardo gli venne quando fu incaricato di tenere il corso di etica sessuale presso l’Università Cattolica di Lublino in cui fu docente dal ’54 al ‘61. L’estate precedente l’inizio del corso, decise di far circolare la bozza delle dispense che aveva preparato tra gli amici dell’ambiente di Cracovia e durante una vacanza sui laghi chiese che ogni giorno qualcuno preparasse una relazione su un capitolo così da poterne discutere insieme. La cosa che più affascinò i giovani fu il fatto che Wojtyła non era interessato soltanto al loro giudizio sulla solidità teorica dei contenuti, ma ci teneva soprattutto a sapere se quello che aveva scritto aveva senso nella loro concreta esperienza di vita. 

Fu da questo “laboratorio” sperimentale e profetico che venne alla luce Amore e Responsabilità

Nel suo testo Wojtyła propone una prospettiva completamente nuova all’etica sessuale introducendone a fondamento il comandamento dell’amore e la conseguente “norma personalistica”.

Secondo questa norma, la persona è un bene che non si accorda con l’utilizzo, non può essere trattata come un oggetto di uso, come un mezzo subordinato ad un fine; la persona è un bene al punto che solo l’amore può dettare l’atteggiamento adatto e interamente valido a suo riguardo. Insomma, la persona non può mai essere trattata come un mezzo ma solo come un fine.

In questo modo Wojtyła faceva emergere tutti i limiti della dottrina sui fini del matrimonio, mostrando ad esempio come un marito potrebbe tranquillamente usare la propria moglie come un mezzo per il fine della procreazione restando formalmente fedele alla dottrina dei fini del matrimonio.

Il modo migliore per affrontare la morale sessuale, secondo Wojtyła, non poteva quindi che essere quello di affrontarla in un contesto di amore e responsabilità, in quanto l’amore è un’espressione di responsabilità personale verso un altro essere umano e verso Dio.

In questo modo, l’amore può essere solo l’incontro di due libertà in cui ciascuna è responsabile per il bene dell’altro. Solo in questo modo il sesso cessa di essere qualcosa che semplicemente accade, o qualcosa di tollerato per altri fini e diviene espressione di pienezza in cui uomo e donna, cercano insieme il bene personale e comune donandosi reciprocamente l’uno all’altro.

L’impulso sessuale e il desiderio, venivano così ad essere pienamente riabilitati perché visti come un bene, un dono da amministrare in quanto capaci di condurre al dono di sé ad un altro essere umano. Ed anche la castità più che una serie di divieti tornava ad esprimere l’integrità dell’amore che rende possibile amare nella verità l’altra persona.

Tanto altro varrebbe la pena dire sulla ricchezza di questo testo, ma non c’è qui lo spazio. Vi invitiamo però a riscoprire direttamente la bellezza di queste pagine, dense ma straordinarie e illuminanti sotto il profilo della morale sessuale, affinché ciascuno possa trovare una luce per la sua personale esperienza.

È curioso scoprire come quest’opera non subì alcuna censura ad opera della polizia segreta del regime, anzi nel rapporto del funzionario incaricato alla verifica, ci raccontava Ludmiła Grygiel, traspariva una certa ammirazione, a conferma del fatto che il fascino della verità sull’amore è in grado di parlare al cuore di tutti, anche dei non credenti.

Era il 1960 quando Amore e Responsabilità veniva pubblicato la prima volta e con questo testo iniziava una delle due rivoluzioni sessuali più importanti del secolo scorso: una è stata la rivoluzione sessuale del ’68 quella del sesso libero e della contestazione al perbenismo borghese; l’altra mite e silenziosa è quella della teologia del corpo, evoluzione matura di queste prime riflessioni di Wojtyła su amore e sessualità.

La prima la conosciamo tutti, la seconda invece è ancora un tesoro da scoprire ed accogliere.

Lasciarsi amare

L’amore nella nostra formazione cristiana è spesso stato presentato come la meta del cammino, “imparare ad amare” sembra essere la strada maestra da seguire, come se dovessimo pian piano migliorarci per poter arrivare ad amare veramente, ad amare come Dio. «Vorrei saperti amare come Dio…»

Un po’ come se occorresse miscelare tra loro una buona dose di vita sacramentale, due manciate quotidiane di preghiera e abbondante impegno, per poter via via salire di livello nell’amore.

È così che frequentemente abbiamo purtroppo confuso il cammino cristiano con il perfezionismo.

Stringiamo i denti e ci proviamo. Se le cose vanno benino per un po’, ci gonfiamo di orgoglio. Quando poi inesorabilmente, nonostante tutti i nostri sforzi, ci ritroviamo al punto di partenza a fare i conti con le nostre solite debolezze, finiamo per avvilirci e sentirci da “buttare via” perché il traguardo sembra irraggiungibile e sproporzionato rispetto alle nostre forze.

Capita allora di sentirsi dire che non siamo noi a dover amare, ma che dobbiamo lasciarci amare: “lasciati amare da Dio”.

Ricordo che da ragazzo questa frase mi faceva parecchio arrabbiare: “ma come cavolo si fa a lasciarsi amare da Dio?”  La risposta poi, mi faceva incavolare ancora di più perché più o meno era sempre la stessa: “accorgiti dei doni che Dio ti fa, cura la tua vita di preghiera, ricevi regolarmente i sacramenti, cerca di seguire i comandamenti…” insomma, in pratica riprendere col cammino di auto-perfezionamento di cui sopra.

Con gli anni ho capito che la cosa in sé ha il suo senso, è vero, il cuore della nostra fede è lasciarsi amare, accogliere l’amore di Dio, ma non è facendo un insieme coordinato di atti cristiani che mi ritroverò un giorno a sentire concretamente l’amore di Dio. La prospettiva è un’altra.

Attraverso la teologia del corpo abbiamo scoperto come in realtà, l’amore non è un traguardo, ma sta all’origine della nostra vita, è il fondamento della nostra fede. Siamo redenti, siamo salvati, siamo amati, si tratta veramente di accogliere questo amore e di lasciarsi trasformare.

Ma veniamo al dunque, accogliere, accettare di ricevere, non è cosa facile. In ciascuno di noi dopo il peccato originale c’è come una stortura, un difetto di fabbrica che ci spinge a voler fare da soli, a voler raggiungere, a voler meritare tutto compreso l’amore. Nessuno accetta facilmente di lasciarsi amare gratis.

La sappiamo bene, lo vediamo su noi stessi anche quando banalmente qualcuno ci invita a cena: sempre ci sentiamo in dovere di portare qualcosa una pianta, un dolce, una bottiglia di vino. Vogliamo essere slegati, autosufficienti, non ci sta bene avere i conti aperti con gli altri, avere un debito con qualcuno.  

Con Dio è più o meno lo stesso, siamo stati educati a dover fare cose per Dio, non ci viene naturale accoglierlo e riconoscerlo. E allora come lasciarsi amare? Come sperimentare il suo amore?

Non possiamo essere superficiali, non esistono ricette! Di certo però, non credo sia un’esperienza che possiamo fare stando seduti comodamente in divano a ragionare su Dio.

Possiamo sperimentare il suo amore quando abbiamo le mani libere, quando non difendiamo più niente…

Spesso, almeno per me è stato così, ti lasci amare quando incontri la crisi, il dolore, quando le tue sicurezze vengono meno, quando la terra ti frana da sotto i piedi e il tuo cuore grida a Cristo. 

Quando ti abbandoni, smetti di agitarti per stare a galla e abbracci la tua croce ovvero quella situazione difficile che hai davanti e dalla quale ti stavi difendendo. Quando accetti di entrare in quella morte insieme a Lui e dopo un tempo di passione, scopri che in quella morte Lui ti ha portato alla vita.

È un’esperienza che si comprende a posteriori: eri morto e ti ritrovi vivo. È un’esperienza pasquale.

È così, credo, che ci è dato di scoprire il Suo volto e di commuoverci perché incondizionatamente amati.

È dopo questo tipo esperienza che possiamo iniziare a scorgere nella Parola di Dio, il volto e lo sguardo amorevole di colui che ci ha tirato fuori dalla morte e vuole donarci vita.

È dopo questo incontro che la nostra vita sacramentale e di preghiera, può cessare di essere perfezionismo e diventare relazione.

È dopo aver sperimentato il suo amore che salva e non ci molla che possiamo capire un po’ meglio cosa significa “lasciarsi amare”.

L’amore è davvero l’inizio di una nuova era (ft. Jovanotti)

Dopo aver commentato Chiaro di luna (qui) e Fango (qui) non resistiamo a fare qualche riflessione a partire anche da Nuova era, brano che ci piace un sacco, non solo per il valore della canzone, energica e romantica allo stesso tempo, ma soprattutto perché, come spesso capita, Jovanotti riesce ad evidenziare alcuni tratti dell’amore capaci di risuonare profondamente nella nostra vita.

Se hai fatto l’esperienza di innamorarti e di essere ricambiato lo sai bene: l’amore è veramente «l’inizio di una nuova era», niente appare più come prima, è come una nuova creazione.

Non stiamo parlando del “colpo di fulmine”, ma del momento in cui una persona con tutto il suo essere, ovvero i suoi pensieri, il suo modo di fare, il suo corpo, la sua sensibilità… inaspettatamente ci appare sotto una luce nuova e non esce più dal cerchio delle nostre attenzioni. È il momento in cui ci sembra possibile e tanto desiderabile “gettare un ponte” verso il mondo dell’altro, un mondo distante e misterioso come lo è ogni uomo da ogni donna, ma allo stesso tempo estremamente attraente. È il momento in cui scopriamo che anche l’altra persona desidera tutto questo e il ponte gettato da entrambi diventa incontro dei cuori.

È qualcosa che ci trascende: un’altra persona prende dimora nel nostro cuore senza che possiamo farci nulla. A te magari piacevano le ragazze bionde, ma questa ragazza dai capelli mori, inspiegabilmente, è entrata nel tuo cuore. È come un «fermo immagine del mondo», perché tutto ciò che prima contava, d’improvviso appare sfuocato rispetto a lei. Tu vorresti pensare ad altro, vorresti provare a studiare, a fare sport… ma il pensiero di lei ti accompagna costantemente, la cerchi, le scrivi, e saresti pronto a «grandi imprese» pur di godere della sua presenza.

È una straordinaria e fondamentale esperienza di decentramento: tu, che prima ti sentivi al centro del mondo, che organizzavi tutto in funzione dei tuoi bisogni e delle tue voglie, improvvisamente ti trovi a mettere davanti un’altra persona. Non un corpo da usare o su cui fantasticare, ma una persona tutta intera nella sua verità, con il suo «cuore che batte» e che fa battere anche il tuo.

È il mistero dell’amore che risuona «come un tamburo che annuncia la vittoria», la vittoria sull’egoismo e sul possesso, e ci apre a fare della nostra vita un dono a qualcuno diverso da noi.

Ma al medesimo tempo questa esperienza ci rivela a noi stessi, svela la nostra preziosità. Fino al giorno prima, in noi c’era sempre qualcosa che non andava, non ci sentivamo mai pienamente all’altezza degli altri e delle cose, ma ora che scopriamo di essere entrati nel cuore di un’altra persona, di essere per lei desiderabili e unici al mondo, intuiamo anche il nostro inestimabile valore.

È un mistero di meraviglia: quell’attesa del cuore che prima non sapevamo spiegare, e tentavamo in molti modi di saziare, improvvisamente si compie in un’estasi che non si riesce a comunicare. Ci scopriamo unici e insostituibili proprio per quella stessa persona che portiamo nel cuore.

Ed il cuore esulta in una gioia mista a timore: «Stiamo pensando alla stessa cosa io e te, nello stesso momento. Lo senti, lo sento…».

Qualcuno dice che «è una reazione chimica», i filosofi parlano di un «eterno movimento», in fondo non c’è una spiegazione logica, eppure siamo io e te trasfigurati nell’amore, avvolti da qualcosa che ci supera e che non si riesce mai pienamente a comunicare, lo sento io e lo senti tu.  

Ed è incredibile, perché la vita, improvvisamente, prende un senso e un sapore nuovo che prima non aveva, e questo incontro dei cuori dischiude ai nostri occhi un orizzonte di bellezza.

È esperienza di infinito, è assaggio di eternità, perché entrambi sogniamo che il nostro amore sia per sempre, che non abbia mai fine.

È un’esperienza rivoluzionaria perché svela anche in nostro destino: vivere l’uno per l’altro. Ad entrambi infatti appare straordinariamente bello e desiderabile stare insieme, condividere tutto, condividere la vita.

L’Amore crea, l’amore attrae, l’amore chiama. Sentiamo allora la chiamata ad essere «una cosa sola» ad essere «Due sillabe della stessa parola»: a dire insieme una parola di vita al mondo, senza appiattirci, senza fonderci, ma ognuno col suo dono proprio insieme all’altro.

È insomma esperienza di Dio. Dio che è Amore e che ci apre a partecipare all’amore, Dio che supera i nostri rigidi schemi e scompagina le nostre piccole convinzioni per rivelarci il senso di una vita piena vissuta nel dono reciproco.

È per questo che sperimentarlo, ci fa sentire «un poeta, anzi di più un profeta» perché amandoci possiamo annunciare la bellezza di Dio che è amore e che dona sé stesso perché possiamo avere vita.

Facilmente, di fronte a questa lettura, qualcuno scrollerà le spalle pensando alla fase dell’innamoramento giovanile, apice della passione e ormai sbiadito ricordo, distante anni luce dall’ordinario ménage famigliare… E se invece di essere il vertice dell’amore, l’esperienza dell’innamoramento fosse un preludio, un’anticipazione della gioia che attende gli amanti nella loro vita?

Non sappiamo se Jovanotti ha mai letto Solov’ëv, ma questo straordinario autore russo ci offre un’affascinate chiave per superare questo “luogo comune”.

Egli sostiene infatti, che la visione ideale che gli amanti hanno l’uno dell’altro durante l’innamoramento non è un’illusione, bensì una rivelazione della bellezza definitiva per cui Dio li ha creati. Egli vede quindi nell’innamoramento un appello reciproco che gli amanti si rivolgono: «amami perché io diventi così come tu mi stai vedendo!». Innamorarsi sarebbe quindi una promessa della bellezza che attende gli amanti se accettano la scommessa di vivere l’uno per l’altro uniti nell’amore.

Siamo convinti che ascoltare Jovanotti cantare questo appassionato inno all’amore per sua moglie, a cinquantanni suonati, sia la conferma più bella che non si tratta solo di illusioni giovanili, ma che l’amore, se ci crediamo fino in fondo, mantiene le sue promesse: si dilata, cresce, matura e non può finire perché la sua sorgente è in Dio.

Sì, l’amore è davvero l’inizio di una nuova era. Grazie Lorenzo.

Cinema & teologia del corpo: Jojo Rabbit

Chi di voi ha visto Jojo Rabbit? Se non lo avete visto, il consiglio è di rimediare al più presto.

È un film bellissimo, esilarante e serio, profondo e divertente. A noi è piaciuto talmente tanto che dopo averlo visto al cinema con i nostri nipoti, siamo tornati a vederlo anche in questi giorni, sotto le stelle, in uno di quei cinema all’aperto di paese, deliziosi e un po’ all’antica.

Dopo aver frequentato i corsi di Christopher West negli USA al TOB INSTITUTE, ogni tanto, quando guardiamo un film, cerchiamo i “semi del verbo”. Christopher infatti ad ogni corso propone sempre la visione di un film, ma non una pellicola a tema religioso, tipo Gesù di Nazareth o I dieci comandamenti, bensì un film hollywoodiano, “insospettabile” per così dire, dove chiede di prestare particolare attenzione ai messaggi profondi che si possono cogliere, che rimandano alla fede e alla teologia del corpo. Proprio come abbiamo letto domenica infatti, è convinto che grano e zizzania crescano inevitabilmente assieme, e che quindi, piuttosto che rigettare ciò che è “mondano”, valga piuttosto la pena riconoscere in ogni cosa i semi del verbo, piccole tracce di verità che si possono cogliere anche al di là di quello che è l’intento consapevole del regista o dello sceneggiatore.

Jojo Rabbit da questo punto di vista ci è sembrato particolarmente stuzzicante.

Il film è ambientato in Germania durante la seconda guerra mondiale, all’epoca quindi del nazismo. Il protagonista del film infatti, un bambino di 10 anni, sta per partecipare ad un weekend di training per la gioventù hitleriana, di cui sta entrando orgogliosamente a far parte, tanto che ha per amico immaginario niente meno che Hitler, interpretato in maniera caricaturale nonché magistrale dal regista Taika Waititi.

«Oggi tu diventi un uomo» questo è quello che si dice Jojo prima di partire e questo è l’asse portante delle nostre riflessioni: cosa significa diventare un uomo? Questa è infatti una delle domande-chiave a cui vuole rispondere la teologia del corpo.

Al campo di formazione per giovani nazisti, diventare un uomo significa imparare ad usare il pugnale, la pistola e a lanciare una bomba a mano, significa odiare (gli ebrei), ma significa soprattutto imparare ad uccidere e a combattere per uccidere. La scena più significativa qui è quando Jojo viene preso in giro perché ritenuto codardo e deve dimostrare di non esserlo uccidendo un coniglio, cosa che non farà e che gli costerà l’appellativo di “Jojo coniglio” appunto.

Ma diventare un uomo è proprio questo?

Per diventare uomini c’è bisogno di confrontarsi con l’uguale (il maschile) e con il differente (il femminile), e questo film ci offre degli spunti molto interessanti su questo.

Jojo non ha il padre, che è impegnato al fronte, e nel rapporto con l’amico immaginario Hitler si avverte tanto il suo bisogno di una figura paterna con cui confrontarsi e che creda in lui. Nel vuoto della presenza reale però, tale figura immaginaria è idealizzata, tanto da rendere il piccolo Jojo un vero e proprio fanatico nazista desideroso di compiacere il suo Hitler.

Al campo di formazione incontra però una nuova figura maschile: il capitano Klenzendorf, personaggio pittoresco e discutibile a cui una menomazione fisica, dovuta ad una ferita di guerra, ha interrotto bruscamente i sogni di carriera militare e ridimensionato significativamente il feeling con l’ideologia nazista. Sarà lui che, a dispetto delle attese, nel corso del film si preoccuperà per Jojo, lo proteggerà, arrivando infine a fare un gesto dal profondo valore paterno: sacrificare la sua vita per quella del piccolo.

La madre (Scarlett Johansson) è la figura chiave per il piccolo Jojo, è lei a donargli nelle parole e nei fatti un prezioso insegnamento sull’amore. Nei dialoghi tra i due infatti lei gli consegna alcune frasi-chiave che spetterà a Jojo verificare e fare proprie nel corso della vita: «L’amore è la cosa più forte al mondo» e «La vita è un dono e dobbiamo celebrarla». Tali dichiarazioni non rimangono però frasi sospese e astratte, perché la madre ha accolto segretamente nella loro casa una ragazza ebrea, Elsa, testimoniando così con la sua stessa vita cosa significa l’amore e perché vale la pena vivere (qui non posso svelare oltre se non avete visto il film).

E sarà proprio nel rapporto con Elsa, di cui scopre di nascosto l’esistenza, che Jojo imparerà a fare i conti con la realtà dell’altro, che non è più un fantasma ideale contro cui combattere, ma è una persona concreta, con i suoi sentimenti e i suoi bisogni, e a cui infine si affezionerà fino ad innamorarsene.

Andando verso una conclusione, possiamo allora dire che questo film ci può regalare alcuni importanti spunti su cosa significa essere padri: insegnare a offrire la propria vita, e su cosa invece significa essere madri: insegnare ad accogliere la vita.

Grazie all’aver fatto esperienza di un padre e di una madre Jojo, alla fine del film, potrà finalmente liberarsi dell’amico immaginario Hitler, che non gli serve più, dato che ha sperimentato una paternità reale, ma soprattutto ha imparato cosa significa davvero diventare uomo.

Nelle ultime scene infatti, Jojo, che è innamorato di Elsa, può decidere se farle credere che la Germania ha vinto la guerra, trattenendola così con sé, oppure se dirle la verità, lasciandola libera di uscire dal suo nascondiglio, a costo di perderla. Jojo sceglie di dirle la verità e di lasciarla libera, dimostrando di aver imparato nonostante i suoi dieci anni e mezzo ad amare nel modo più sublime: mettere davanti la felicità dell’altro e lasciarlo libero.

Ecco cosa significa diventare uomo: imparare ad amare e fare ciò che si ha in potere di fare per amore, anche contro il proprio stesso interesse.

Pentecoste: godiamoci il bacio di Dio!

Lo Spirito Santo, il bacio di Dio sull’umanità

Se iniziamo parlando di San Bernardo, ai più verrà in mente un coccoloso cagnolone di grossa taglia, eppure esiste un santo molto affascinante che ha in comune lo stesso nome: Bernardo di Chiaravalle.

Cosa centra San Bernardo con la Pentecoste ve lo diciamo subito… in vista della Pentecoste, il nostro caro amico don Luigi, ci ha condiviso alcune meditazioni di questo santo sullo Spirito Santo. Si tratta di intuizioni bellissime che nascono dalla sensibilità di un mistico, e che racchiudono, con buona pace dei più scettici, una sorprendente concretezza. Vogliamo quindi provare di raccontarvi con le nostre povere parole questa meraviglia.

Nei sermoni sul Cantico dei Cantici, San Bernardo, contemplando il linguaggio d’amore degli sposi e la capacità del loro corpo di esprimere l’amore attraverso gesti concreti, vede una rappresentazione simbolica del mistero trinitario di Dio. Come diceva Giovanni Paolo II infatti, il nostro Dio non è solitudine, ma è una famiglia, e il mistero trinitario ci rivela proprio Dio come comunione di amore e intimità tra le tre persone divine.

San Bernardo in particolare si sofferma sul versetto «Mi baci con i baci della sua bocca» (Ct 1,2) il bacio quindi come gesto d’amore, quel bacio bocca a bocca che appare come la trasmissione dello stesso respiro, della stessa vita, gli rivela una realtà ancora più profonda.

Certo dobbiamo qui purificare il nostro sguardo inquinato, non si tratta ovviamente del cosiddetto «bacio alla francese», ma semplicemente di un incontro appassionato delle labbra.

E proprio questo incontro delle labbra fa dire a San Bernardo che lo Spirito Santo può essere visto come il bacio del Padre al Figlio poiché rappresenta «l’imperturbabile pace del Padre e del Figlio, il saldo vincolo, l’indivisibile amore e l’indissolubile unità tra i due».

Dice San Bernardo che il Padre ama il Figlio, e lo abbraccia con una singolare dilezione (ovvero un amore spirituale costante), ma anche egli stesso è amato da parte del Figlio, il quale per amore Suo accetta la morte in croce.

Le letture di questo tempo di Pasqua, in fondo, non hanno fatto altro che ricordarci quotidianamente tutto questo, che Cristo e il Padre sono una cosa sola: «io sono nel Padre e il Padre è in me», e che noi, nella Pasqua di Cristo, abbiamo accesso a questa unità: «In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi.»

San Bernardo dice proprio che a pronunciare la frase del Cantico «Mi baci, con il bacio della sua bocca» è la sposa e «sposa» è ogni anima che ha sete di Dio. È affascinante allora guardare alla Pentecoste, al dono dello Spirito Santo, come ad un bacio che ci dona il Padre.

Il vangelo che troveremo nella liturgia dice «soffiò su di loro» e per soffiare, guarda caso, bisogna proprio protendere le labbra come a voler baciare.

La bocca, le labbra, sono un mistero di vita potentissimo perché sono bacio, respiro, parola e nutrimento.

Questo soffio-bacio-parola attraversa tutta la Scrittura, la apre e la chiude. Lo troviamo al principio, quando Dio crea con la parola e plasma l’essere umano come attraverso un bacio, comunicandogli la sua vita più intima attraverso il soffio di un alito di vita. E lo troviamo al compimento delle scritture nel mistero Pasquale, quando Cristo sul talamo della croce, chinato il capo, spirò, ovvero soffiò, condivise a noi la sua vita. Ed è sempre il tema del bacio a ricordarci che è possibile guardare tutta la Bibbia anche come un’appassionata storia d’amore tra Dio e l’umanità.

La Pentecoste ci parla proprio di questo Dio innamorato che attende di baciarci attraverso il Figlio, ci parla di questo bacio spirituale che è più di un bacio, è condivisione di vita eterna.

Forse qualcuno potrà trovarsi un po’ a disagio all’idea di ricevere un bacio sulla bocca da Dio. Eppure, proprio questo incontro libero delle labbra, questa condivisione dei respiri può in modo forte e concreto raccontare il mistero della vita nuova, che ci è comunicata nella Pentecoste attraverso lo Spirito Santo.

Benché siamo tutti messi maluccio, non si tratta di una «respirazione bocca a bocca» che subiamo, può trattarsi solo un bacio. Può essere solo un bacio perché soltanto il bacio bocca a bocca è incontro di due libertà. Solo il bacio rivela desiderio di intimità, desiderio di una vicinanza fino a diventare una cosa sola: io in te e tu in me.

Questa festa allora ci parla di un Dio innamorato che attende di baciarci. Oggi Dio bacia, Dio mi bacia, protende le sue labbra per incontrare le mie e condividermi il suo respiro, la sua vita più intima che è la comunione. Accoglierò questo bacio? Godrò di questo bacio?

Buona Pentecoste

Anche il tuo corpo fa Pasqua con Lui

Ci accingiamo a vivere una Pasqua del tutto particolare e certamente, visto il contesto attuale, tutti ci auguriamo che resti “unica”. Da parte nostra possiamo dire che desideriamo resti unica, non solo perché non si ripetano altre pandemie, ma anche perché tutti noi possiamo gustarla in un modo completamente nuovo.

Ecco allora che forse, più che coltivare l’amarezza per i riti a cui non ci sarà possibile partecipare, o abbandonarci al dispiacere per ciò che irrimediabilmente mancherà quest’anno, crediamo sia più saggio provare di mettere a fuoco ciò che di essenziale questo tempo ci ha lasciato, per vivere intensamente il mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù.

È vero, quest’anno non potremo andare nell’edificio chiesa per la Santa Messa, ma avremo forse la possibilità di riscoprire la Chiesa come «famiglia di Dio», come «famiglia di famiglie» che, insieme, si sostiene vicendevolmente in questa fase di difficoltà. Se siamo una coppia di sposi poi, la nostra casa è anche «chiesa domestica» a tutti gli effetti, perché la nostra relazione è abitata da Cristo. Ma soprattutto in quanto battezzati, siamo divenuti noi stessi tempio dello Spirito Santo, dello Spirito dei figli di Dio per mezzo del quale possiamo chiamare Dio, «Padre».

È vero, purtroppo non sarà possibile ricevere fisicamente il corpo e sangue di Cristo, ma avremo ugualmente la possibilità di accostarci al mistero eucaristico, che è il mistero del Suo corpo donato per amore. Un corpo reale: il suo sudore, la suo schiena, il suo capo, le sue spalle, le sue mani e i suoi piedi inchiodati alla croce, ci danno la misura schietta del suo amore per noi, concreto ed incarnato senza fronzoli e sdolcinatezze.

È vero, non abbiamo la mediazione di quei preziosi segni che solo la liturgia ci sa comunicare (il ramo d’ulivo, la lavanda dei piedi, il bacio della croce e la luce della notte di Pasqua), ma abbiamo la possibilità di riscoprire la nostra persona, il nostro corpo, che non solo è il segno più bello di tutto il creato, perché portiamo in noi l’immagine e somiglianza con Dio, ma è ciò con cui possiamo unirci al Padre nella preghiera per essere sacrificio vivente, santo e gradito a Dio.

Ecco allora che per cercare di penetrare un po’ di più il grande mistero pasquale, desideriamo proporvi una piccola meditazione da fare personalmente, “corpo a corpo” con Cristo, ispirata ad un testo di Jo Croissant. Una meditazione che crediamo ci aiuti a cogliere il mistero del divino e dell’umano, che in Cristo si sono uniti per non essere mai più separati.

  • IL SUDORE: il nostro nel Suo

«In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra.» (Lc 22,44)

Mediante l’agonia di Gesù al Getsemani è stato santificato il sudore dell’uomo. Dio disse ad Adamo: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane”. Gesù suda sangue, quasi ad esprimere in modo radicale il dono di tutto il suo essere, corpo, anima e spirito, per la redenzione del mondo. Accetta di assumere le conseguenze del peccato originale e, con il sudore come gocce di sangue, riscatta tutto il lavoro dell’uomo. Quel sudore esprime l’intensità della sua sofferenza interiore, della sua lotta con il nemico, padre di menzogna, che cerca di convincerlo dell’inutilità del suo sacrificio.

Signore Gesù, ti rendiamo grazie per averci riscattati con il tuo sangue.

Ti offriamo il nostro lavoro, le nostre lotte interiori ed esteriori

Affinché tu le associ alla tua redenzione.

Non sia vano alcuno nostro sforzo,

non sia inutile alcuna nostra sofferenza,

ma tutto possa servire per la tua gloria e per la salvezza delle anime.

  • LA SCHIENA: la nostra nella Sua

«Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare.» (Gv 19,1)

Con la flagellazione Gesù ha offerto la sua schiena alla cattiveria degli uomini, accettando di soffrire nella sua carne le lacerazioni che il male e l’ingiustizia infliggono alla carne umana.

Signore, ti offriamo tutte le sofferenze presenti nella nostra carne.

Ti offriamo la nostra schiena ricurva sotto il peso di tanti fardelli.

Concedici di non sopravvalutare le nostre forze

E di non caricarci di fardelli che non ci chiedi portare,

ma di portare con gioia la nostra parte di sofferenza.

  • IL CAPO: il nostro nel Suo

«E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo» (Gv 19, 2)

Con l’incoronazione di spine Gesù offre il suo capo per ottenerci la purificazione della nostra mente.

Signore, ti offriamo tutto ciò che non capiamo della nostra vita,

tutto ciò che ci sembra senza senso, inutile

e che non riusciamo a controllare.

Signore, sia la nostra testa sottomessa al tuo cuore,

affinché non dimentichiamo mai che sei il nostro Creatore e Salvatore.

Proteggici dall’orgoglio e della presunzione.

Dacci l’intelligenza delle Scritture,

la comprensione dei tuoi misteri con il cuore.

Come Salomone, ti chiediamo

la saggezza di non giudicare tutto in modo umano,

ma di vedere ogni cosa nella tua luce.

  • LE SPALLE: le nostre nelle Sue

«Essi allora presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio, detto in ebraico Gòlgota» (Gv 19,17).

Nella via crucis, Gesù offre le sue spalle. Sarà schiacciato sotto un fardello troppo pesante per le sue spalle umane, conoscendo pienamente la nostra condizione di debolezza.

Signore ti offriamo tutto ciò che ci disturba, che ci tormenta,

ciò che è troppo pesante per noi e che ci schiaccia.

Aiutaci a non sottrarci ai tuoi disegni,

a portare la nostra croce con coraggio e con fiducia,

sapendo che la porti insieme a noi.

  • PIEDI E MANI: i nostri nei Suoi

Sulla croce offre i suoi piedi e le sue mani, immobilizzati, resi impotenti, affinché tre giorni dopo scaturisca la potenza della resurrezione.

Signore, ti offriamo i momenti

in cui ci fai vivere un’immobilità che ci crocifigge,

in cui siamo praticamente impossibilitati ad agire,

in cui dobbiamo renderci conto della sconfitta e della morte.

Vogliamo proclamare la tua vittoria sul male e sulla morte,

la nostra certezza che tu cambi il male in bene

con la potenza della tua resurrezione.

Ci siamo imbattuti in questo testo di Jo Croissant quasi per sbaglio, ma crediamo che, visti i tempi che stiamo vivendo, non sia stato un caso. Pensiamo che valga davvero la pena dedicare un piccolo spazio della nostra settimana santa a questo “corpo a corpo” con il Signore Gesù, per gustare ancora più personalmente ed intensamente come la Sua Pasqua non è qualcosa che riguarda solo il nostro domani e l’aldilà, ma riguarda sempre il nostro oggi, la nostra vita concreta nel corpo, in ogni suo aspetto. Lui è venuto per redimere tutto di noi; tutto ciò che siamo, in Lui, passa da morte a vita perché Lui solo fa nuove tutte le cose.

 Buona Pasqua di Resurrezione da Giulia e Tommy

E la tua Annunciazione?

Anche il 25 marzo di 20 anni fa era la festa dell’Annunciazione.

Era l’anno del Grande Giubileo, Papa Giovanni Paolo II stava vivendo il suo pellegrinaggio in Terra Santa e quel giorno volle celebrare questa solennità con una messa nella basilica dell’Annunciazione a Nazareth.

Oggi anche noi celebriamo questa solennità, ma com’è il nostro rapporto con questa ricorrenza liturgica?

Dobbiamo ammettere che nel nostro immaginario l’evento dell’Annunciazione ha connotati un po’ “fiabeschi”: Maria in ginocchio e di fronte a lei il classico ragazzone biondo con le ali che porta l’annuncio. Questo è un po’ il leitmotiv che l’arte cristiana ci ha consegnato e in verità spesso fatichiamo ad andare oltre quest’immagine per cogliere il contenuto simbolico di questo evento straordinario.

L’Annunciazione infatti non è stata banalmente una comunicazione di servizio da parte di Dio ad una sua creatura, tutt’altro: il mistero dell’Annunciazione custodisce in sé il mistero dell’incarnazione ed è quindi intimamente legato con la teologia del corpo, e di conseguenza alla vita di ciascuno di noi.

Maria con la sua risposta libera, con il suo “sì”, si conforma alla volontà del Padre, fa spazio nella sua carne, al Verbo della vita, al redentore del mondo. Maria tesserà nel suo grembo la carne del Figlio di Dio e dopo nove mesi lo genererà.

Karol Wojtyła, nel poema La Madre, immagina lo stupore di Maria che ripensa all’evento dell’Annunciazione :

«Questo momento di tutta la vita, dacché lo conobbi nella parola,

da quando divenne mio corpo, nutrito in me col mio sangue,

custodito nell’estasi –

cresceva nel mio cuore in silenzio, come un Nuovo Uomo,

tra i miei stupiti pensieri ed il lavoro quotidiano delle mie mani»

Questo evento è il mistero che fa di Maria la Madre di Dio e le consente di raggiungere un’unione con Dio inimmaginabile per le attese dello spirito umano fino ad allora.

Ma a ben vedere, questo è anche il mistero della nostra umanità: come ha più volte sottolineato Giovanni Paolo II, Maria rappresenta anche l’immagine di tutto il genere umano. Ciascuno di noi infatti è chiamato, come Maria, ad essere tempio dello Spirito Santo, ad accogliere la Parola, il Verbo di Dio.

Anche per noi infatti, come per Maria, la vita eterna, la vita piena, passa per un annuncio.

Anche in noi il Dio del cielo desidera dimorare per generare vita, comunione, bellezza.

L’esistenza di ciascuno di noi è fatta di tanti piccoli annunci, di tante “parole” che se accolte, posso fecondare la nostra vita e di riflesso anche quella altrui.

Ogni Eucaristia, ogni incontro con la Parola, ogni evento della nostra vita, può diventare per noi Annunciazione, momento in cui Dio si rivela e ci chiede la disponibilità ad essere accolto, ci chiede di fargli spazio, di dargli la nostra carne.

E se, come Maria, diremo il nostro “sì”, inizierà una gestazione feconda, generativa, che porterà vita.

Come abbiamo letto nella seconda lettura di oggi, Dio Padre non desidera sacrifici, ma un corpo ci ha preparato…  Diciamo allora il nostro “Eccomi”, apriamoci a questo mistero e arriveremo anche noi a gioire cantando il nostro Magnificat.

L’irrinunciabile esperienza della solitudine

Che Jovanotti ci piaccia è già venuto a galla (vedi Il Cantico dei Cantici di Jovanotti). Senza dubbio è un’artista di una sensibilità particolare.

Ultimamente mi è capitato di riascoltare una sua vecchia canzone che avevo completamente dimenticato, ma le cui parole, non so perché, erano ancora impresse da qualche parte nella mia memoria.

Il pezzo in questione si intitola “Fango” e devo confessare che quando uscì la prima volta nel 2007, non mi attirò per nulla. Oggi invece, riascoltandolo con inaspettato gusto, si sono accese nella mia testa numerose ‘lampadine’ che vorrei provare di condividere con voi.

Io lo so che non sono solo  Anche quando sono solo”

È il ritornello che ricorre come un mantra in questo brano e pare quasi una sintesi tra una massima sapienziale e una filastrocca per bambini. Il tema è quindi quello della solitudine, un tema attuale e se vogliamo, per certi versi anche drammatico. Che frustrazione la solitudine, credo che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo sperimentato questa sofferenza: desiderare qualcuno con cui parlare cuore a cuore, qualcuno con cui condividere una fatica, o una gioia, ma non sapere a chi rivolgerci.

In questo testo però la prospettiva appare diversa, non c’è disperazione, ma matura consapevolezza. L’autore si rende conto di non essere solo anche quando intorno a lui non c’è nessuno. Ovviamente basta dare uno sguardo al testo per capire che non si sta riferendo ad un amico immaginario, è piuttosto come se volesse sottolineare che la sua solitudine nasconde una presenza interiore.

Insomma, Jovanotti lo sa di non essere solo quando è solo… e io?

Mi tornano alla mente le riflessioni di San Giovanni Paolo II che, meditando sull’esperienza del primo uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio, si sofferma proprio sul significato della sua solitudine di fronte a Dio.

Siamo nel secondo capitolo della Genesi, un testo dall’alto contenuto simbolico, in cui l’uomo, plasmato dalla polvere del suolo e dal soffio divino di Dio (appunto “con il cielo e con il fango”), nonostante si trovi ad avere a disposizione tutto il creato, sperimenta la solitudine. Una solitudine che porta Dio ad esclamare: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”.

Secondo Giovanni Paolo II questa esperienza, non riguarda solamente il fatto che non sia ancora stata creata la donna, ma ha a che fare con la natura stessa dell’uomo, cioè con la sua umanità.

Come esseri umani infatti, al contrario delle altre creature viventi (animali e piante), siamo dotati di una vita interiore e pertanto ciò che ci accade, non ci accade e basta, ma ciò che viviamo nel corpo tocca inesorabilmente la nostra interiorità, ci interroga, ci stupisce, ci ferisce, muove le nostre idee, le nostre sensazioni, i nostri sentimenti e soprattutto attiva la nostra capacità di interpretazione, di giudizio e di decisione. È lì che ogni persona può aprirsi alle domande ultime su sé stessa, sull’esistenza, sulla trascendenza, è lì che può scoprirsi sola con Dio.

La Bibbia chiama questa dimensione ‘cuore’, i teologi utilizzano la parola ‘coscienza’, per Giovanni Paolo II è qui che attraverso l’esperienza del proprio corpo ogni uomo trova la sua vera identità di persona ad immagine e somiglianza di Dio, scoprendosi capace di relazione con Dio come “partner dell’Assoluto”.

La solitudine allora, non è vuoto da riempire, ma è scoperta di una presenza!

In quanto esseri umani, a ben vedere, non siamo mai soli quando siamo soli, viviamo in un costante dialogo interiore con noi stessi, e con ciò che vive dentro di noi. Questo è il fondamento della preghiera, che è superamento dell’isolamento in quanto relazione figliale con Dio Padre che parla al cuore. Questa è la grandezza dell’essere umano: la sola creatura che nella solitudine è capace di conoscersi, di possedersi, di donarsi liberamente e di entrare in comunione con altre persone e con il suo Creatore.

Di fronte a questa realtà si comprende perché Jovanotti dice:

 “l’unico pericolo che sento veramente

È quello di non riuscire più a sentire niente”

Il vero rischio che corriamo è quello di smettere di vivere al livello più profondo della nostra esistenza, di fermarci in superficie. È il rischio dell’insensibilità, di non riuscire più a cogliere il senso oltre le cose:

“Il profumo dei fiori l’odore della città

Il suono dei motorini il sapore della pizza

Le lacrime di una mamma le idee di uno studente”

Nulla è per caso, tutto muove perché possiamo “stare con le antenne alzate verso il cielo” ovvero vivere in relazione con Dio e così capire meglio noi stessi, gli altri e il mistero della vita.

Pensare richiede un allenamento quotidiano, una lettura di ciò che si vive, si sente, si soffre e l’esercizio della memoria con cui si costruisce l’esperienza. Oggi purtroppo viviamo in una cultura che sistematicamente narcotizza il pensiero, non siamo più abituati a sopportare la frustrazione del silenzio e della solitudine. Siamo sempre connessi, con tutto tranne che con noi stessi, per cui le cose che viviamo, gli eventi, le relazioni, tutto resta muto.

Alcuni giorni fa durante l’incontro con un gruppo di universitari, un ragazzo confidandoci il suo smarrimento ci ha chiesto come fare a capire se vale la pena impegnarsi in una relazione seria con la ragazza che frequenta oppure se conviene restare amici. Qualcosa abbiamo provato a dire, ma purtroppo qui non esistono ricette, occorre recuperare e custodire il contatto con la propria vita interiore. Senza l’assunzione di questo compito (che comprende anche il cammino con un padre spirituale), di fronte a domande come questa, non serviranno a molto nemmeno rosari e novene. Infatti, prima ancora di portare ogni cosa davanti a Dio, è necessario che io trovi la mia collocazione di fronte a ciò che sto vivendo, che io dia un nome ai pensieri e ai sentimenti che si muovono in me.

A ben vedere ciò che spesso ci mette in crisi, non sono i problemi in sé stessi, quanto la nostra capacità di rispondere ad essi, insomma la nostra responsabilità. Certo tutto questo comporta una fatica, ed anche la disponibilità ad ascoltare le ferite e le angosce del proprio cuore, ma non è possibile prescindere da questo passaggio, specie per chi desidera iniziare una relazione di coppia. Giovanni Paolo II diceva che l’unità tra uomo e donna scaturisce dall’incontro di due solitudini, ovvero di due persone che hanno sperimentato la loro solitudine di fronte a Dio e hanno accolto la loro vita come un dono scoprendosi chiamate al dono di sé. Solo così è possibile trovare ancora “il coraggio di innamorarsi […] di svegliarsi e di alzarsi. Di smettere di lamentarsi…”.

L’augurio che insieme vogliamo cogliere da questa canzone è quello di poter guardare alla solitudine e al silenzio non più come a nemici da evitare, ma come alleati da custodire. La solitudine è una esperienza irrinunciabile che ci mette di fronte a noi stessi, ai nostri limiti, ai nostri desideri, al rapporto con Dio.

Il ritornello “Io lo so che non sono solo, anche quando sono solopossa allora diventare una piccola preghiera capace di condurci a profondità nuove della nostra vita.

A proposito di porno

Recentemente, su più fronti, siamo stati interpellati sul tema pornografia.

Allo scorso Forum WAHOU un ragazzo ci ha chiesto come poterne uscire, in un’altra occasione una donna sposata ci ha confidato sconvolta di aver scoperto che suo marito guarda abitualmente video porno, ed infine un’amica ci ha condiviso la preoccupazione per il fratello ventenne che sta da pochissimi mesi con una ragazza che gli ha già proposto di guardare (e non solo) porno insieme …

In modo soft ormai la pornografia è diventata una cosa quotidiana, un prodotto stuzzicante e gratuito a disposizione H24 comodamente sui nostri smartphone per riempire i nostri vuoti interiori.

Nonostante i continui tentativi di normalizzarla rendendola un ingrediente di tante cose come serie tv, reality, pubblicità e video musicali, tutti quanti intuiamo tacitamente che nella pornografia c’è qualcosa che non va. Anche chi la difende dicendo che il sesso è una cosa naturale, in fondo in fondo sa che non è poi così naturale avere un incontro intimo col proprio smartphone. Basti pensare che per accedervi occorre uscire dall’ambiente reale delle relazioni sociali e passare, non senza un pizzico di furtività, ad un ambiente virtuale che per pulirci la coscienza abbiamo chiamato: ‘per adulti’.

Purtroppo, ciò che è stato propinato come espressione di libertà contro ogni censura, presenta in realtà un duplice problema: la pornografia fa male ed è un male!

Si, la pornografia fa male, ma fa male a chi?  Di fatto, se non è coinvolto nessun’altro, a chi faccio del male se guardo qualcosa di ‘spinto’ nel segreto della mia stanza?

Fa male a me! Io sono la vittima! E sebbene sul momento ne esca eccitato, non mi rendo conto che la pornografia come un parassita mi sta divorando dall’interno.

Innanzitutto, crea dipendenza. Ci sono sull’argomento numerosi studi neurologici che mostrano come il meccanismo fisiologico che si innesca in chi guarda pornografia è simile a quello di chi assume droghe.

(Vi rimandiamo all’associazione Puri di cuore che si occupa dell’argomento per approfondirne il tema della dipendenza).

Ma non è tutto: la pornografia altera anche il mio immaginario. Non tanto perché spesso mostra rapporti violenti o perversi, quanto perché altera il modo di vedere le altre persone.

Per un uomo che guarda pornografia, le donne cessano di essere persone con una storia, dei sogni, delle ferite, delle attese, ed iniziano a tramutarsi in pezzi di corpo da valutare e da usare. Corpi inanimati su cui fantasticare per il proprio piacere. Per molti questo è il normale sguardo mascolino, ma non è affatto così: questo è uno sguardo pornografico. Un conto è essere attratti dalle donne, altro è uno sguardo che analizza e separa il corpo dalla persona.

Questi sono alcuni degli effetti più nefasti della pornografia, ma se ci fermiamo al dato che la pornografia fa male, rischia di sfuggirci la cosa più importante, ovvero che la pornografia fa male perché è un male.

Un male è qualcosa che indipendentemente dalle circostanze e dalle intenzioni non solo non edifica, ma disgrega la persona allontanandola dalla sua pienezza.

La pornografia però non è un male per il fatto che il sesso è un male, né perché i corpi nudi siano un male.

Qualcuno dice che il male della pornografia è che fa pensare troppo al sesso, ma a ben vedere il sesso viene esibito, consumato, idolatrato, ma non certamente pensato. La nostra cultura pornografica non sa più pensare il sesso. Se sapessimo pensarlo dovremmo chiederci: cos’è il sesso? Che significato ha? Oppure: Chi lo ha inventato?

Da cattolici diciamo: “Dio!” Dio ci ha creati come maschi e femmine e la sua benedizione sull’uomo e sulla donna è stata: “siate fecondi e moltiplicatevi!” (Gn 1,28) ovvero: il desiderio sessuale è buono!

Il desiderio sessuale è quell’energia che nel progetto di Dio ci deve portare ad uscire da noi stessi per fare della nostra vita un dono. Ma quando questo desiderio viene deformato dal male si tramuta in lussuria e allora l’energia del desiderio non è più diretta al dono di me all’altro, bensì all’usare l’altro e al farsi usare dall’altro. La lussuria disgrega così la persona, allontanandola dalla sua dignità.

Karol Wojtyla in Amore e Responsabilità riflettendo sulla differenza tra ‘usare’ ed ‘amare’ scrive:

“La persona è un bene che non si accorda con l’utilizzazione […] La persona è un bene al punto che solo l’amore può dettare l’atteggiamento adatto e interamente valido a suo riguardo”.

Probabilmente tutti abbiamo sperimentato di essere stati usati da qualcuno e certamente sappiamo che non ci ha fatto bene, tutti auspichiamo invece di essere trattati con amore.

Va detto che quando Wojtyla parla di amore non si riferisce a romanticherie di varia natura, ma ha in testa qualcosa di molto chiaro: amare qualcuno è volere il bene di quella persona. Proprio per questo, sempre in Amore e responsabilità, constata come, tanto più l’amore è vero, tanto più il soggetto si sente responsabile della persona.

Possiamo allora cogliere come nella pornografia, tra tutti gli atteggiamenti possibili, l’amore non sia affatto contemplato: le persone sono ridotte ad oggetti bidimensionali che si usano a vicenda per essere usati da chi guarda, nessuno ha cura di nessuno, nessuno è veramente riconosciuto come persona.

Al contrario del cinema dove c’è un messaggio, si racconta una storia, ci sono personaggi interpretati, nella pornografia nessuno è veramente interessato alla trama (quando eventualmente c’è), nessuno si cura del vissuto dei personaggi, del loro stato d’animo… l’obiettivo è uno e uno solo: suscitare la lussuria in chi guarda.

Giovanni Paolo II nelle sue catechesi individua proprio qui il vero problema della pornografia: la pornografia non svela troppo, ma piuttosto svela troppo poco della persona! Il pudore è oltrepassato, violentato e si perde inevitabilmente il mistero della persona e del suo corpo.

Proprio per questo la pornografia è sempre insoddisfacente: ci eccita, ma non è in grado di riempire il vuoto del nostro cuore. La cerchiamo per sentirci vivi, ma ne usciamo tristi, la usiamo assetati di intimità, ma ci ritroviamo sempre più soli, la guardiamo per essere liberi di fare ciò che ci pare ma alla fine ci risvegliamo nella gabbia della dipendenza.

Comprendere che la pornografia è male e fa male, è certamente un primo e insostituibile passo per decidere di affrontare questa abitudine o peggio, dipendenza, e intraprendere un cammino verso un nuovo sguardo e una nuova libertà.